Interviste

Faraualla, voci senza confini

– Il quartetto al femminile pugliese pubblica “Culla e Tempesta”, album che sa essere divertente e drammatico, allegro e impegnato
– Quattro vocalità superlative che esprimono una vasta gamma di emozioni puntando sulla sonorità piuttosto che sulla parola
–  Dalla tammurriata a Tom Waits, dalla parodia ambientalista de “La Sirenetta” al divertissement di “Gasolina”, al capolavoro del brano titolo

L’intreccio di lingue e canti comincia dalla più profonda cavità carsica della Murgia, l’altopiano pugliese: la Faraualla, una voragine che si apre fra distese di grano, pascoli e masserie, isola di silenzi che ha ispirato credenze popolari ed il nome di uno straordinario quartetto tutto al femminile che trasforma la voce umana in un sabba di suoni, un mezzo attraverso il quale esprimere una vasta gamma di emozioni, suggestioni, desideri e stati d’animo, uno specchio dei nostri sentimenti più profondi, capace di trasmettere gioia, tristezza, amore, ansia e molto altro ancora.

Gabriella Schiavone, Teresa Vallarella, Maristella Schiavone e Loredana Savino sono le Faraualla e hanno da poco pubblicato Culla e Tempesta, un album strabiliante, divertente, drammatico, travolgente, politico, femminista, ambientalista, d’impegno civile e sociale. Ma, soprattutto, di una maestria e di una bravura che suscita meraviglia. 

La copertina dell’album

Partendo dalla musica antica, le Faraualla in tre decenni hanno sconfinato negli immensi territori della musica. Hanno attinto dalle proprie tradizioni pugliesi, si sono mosse nella Terronia per poi incontrarsi con la scuola napoletana di Roberto De Simone e Beppe Barra (ancora presente nella tammurriata iniziale di Un Due Tre Amen!), estendersi in tutto il bacino Mediterraneo, sino a toccare l’Andalusia con l’album Miragre!, e captare i segnali sonori provenienti dall’Islanda di Björk o dalla Bristol di Tricky. Adesso, con il nuovo lavoro attraversano le Colonne d’Ercole per abbracciare anche il cantautorato americano, le musiche dei film Disney, il ragamuffin di Daddy Yankee, rivisitando tutto con originalità. 

«La nostra prima attrazione è stata la polifonia e il suono della voce», spiega Gabriella Schiavone. «In questa esplorazione sulla vocalità e sui diversi modi di usarla, abbiamo sempre cercato in giro per il mondo, nelle diverse tradizioni, non solo in quelle del Mediterraneo. Sicuramente siamo stati molto attratti da certi modi di cantare tipici del Mediterraneo e da polifonie che provenivano prevalentemente dall’Est europeo. Però, sì è vero, in quest’album ci sono nuove sonorità. Per la prima volta utilizziamo la lingua inglese con la cover di Tom Waits. Sì, questa è una vera e propria sperimentazione nuova, perché la lingua influenza molto il suono».

Le Faraualla sono Gabriella Schiavone, Teresa Vallarella, Maristella Schiavone e Loredana Savino

Il brano di Tom Waits è Hell Broke Luce, una canzone contro la guerra, che le Faraualla trasformano in una sorta di coro da tragedia greca con inserimenti noise. «L’abbiamo scelto sia per il motivo che hai detto sia perché Tom Waits è uno dei geni della musica moderna, anche dal punto di vista delle sonorità. È uno dei nostri miti», commenta Gabriella Schiavone. «Per come lo abbiamo arrangiato noi, parte da atmosfere più giocose per andare a chiudere nella tragedia. Il gioco delle voci vuole essere quello dei bambini che giocano alla guerra e che va a finire con un conflitto vero».

Poi c’è la caraibica Gasolina, un successo mondiale di Daddy Yankee, che riporta Teresa Vallarella ai suoi inizi reggae con il gruppo Different Stylee, quando fece anche da corista ai Wailers di Bob Marley. Nella versione delle quattro voci pugliesi “Gasolina” diventa “Provolina”. «A Bari la “provolina” è la “mozzarella”», sorride Gabriella Schiavone. «Quindi è la traduzione di “gasolina” che in Daddy Yankee è il motore della parte più erotica di una persona. Perché per noi la “provolina” è uno strumento di erotismo. No, nessun doppio senso a sfondo sessuale, se non mozzarella. Diciamo un’attrazione gastronomica». 

Ancor più divertente, se non fosse per il suo contenuto di denuncia, è la parodia di In Fondo al Mar, la celebre canzone del film Disney La SirenettaNella riscrittura delle Faraualla, il gamberetto Sebastian canta: “In fondo al mar è una monnezza, è una schifezza”. È un mare di plastica, un mare infuriato. Un mare che è stato culla di civiltà e che adesso è in tempesta. Culla e Tempesta, il brano che dà il titolo all’album, è un vero capolavoro. Difficile, arduo, ostico al primo ascolto. Affascinante, incredibile, splendido già al secondo. Teresa Vallarella, la voce protagonista, è da brividi. Nelle vette che raggiunge si ascolta il mare: sereno all’inizio, impetuoso, burrascoso, lancinante come le grida di un gabbiano dopo.

L’obiettivo che abbiamo inseguito in questi anni è stato quello di cercare un’identità della voce prima ancora che possa diventare parola o canto

Gabriella Schiavone

La voce diventa più importante della parola, «che ci schiavizza in un discorso stilistico», diceva Demetrio Stratos. È sostituita da un suono. Voce come entità al di qua e al di là del linguaggio. Voce come grido, balbettio, sussurro, gemito, borbottio, onomatopea, melismo, salmodiamento, canto. Voce come strumento musicale in dialogo con le sonorità strumentali e corporee.

«L’obiettivo che abbiamo inseguito in questi anni è stato quello di cercare un’identità della voce prima ancora che possa diventare parola o canto. Abbiamo cercato di riscoprire tutta quella che poteva essere l’autonomia espressiva della voce. C’è sempre stata una grande attrazione per la parola come suono. O anche la sillabazione. Parecchi dei nostri pezzi sono scritti in una lingua che è totalmente inventata. Nascoste in questa pseudo-lingua ci sono però parole chiave comprensibili che fanno capire e non capire quello che si sta dicendo».

Come nel caso di Non una di meno, dove soltanto dal titolo – riferito al movimento femminista e transfemminista che si batte contro ogni forma di violenza di genere – s’intuisce il contenuto. Un brano teatrale, realizzato insieme al trio romano di percussionisti Ars Ludi, con il quale le Faraualla portano in giro un altro spettacolo teatrale. «A un certo punto di questa messinscena, il trio utilizza una serie di espressioni vocali e di percussioni e noi siamo processate e giudicate. È la rappresentazione di una fascinazione e poi di una violenza subita», spiega Gabriella Schiavone. «Poi ognuno è libero di comprendere, ma questo va benissimo per me. Se qualcuno interpreta in un’altra maniera, per me è uguale».

Perché una versione di “Bella Ciao”? È il brano della Liberazione. È il brano che ci deve rappresentare tutti e nel quale noi crediamo moltissimo

Gabriella Schiavone

Nel corso degli anni le Faraualla si sono assolutamente distinte per composizioni che seguivano solamente l’istinto e nessuna linea o genere che le uniformasse. Come funziona il processo compositivo all’interno del gruppo? C’è molta improvvisazione o seguite delle strutture definite?

«Adesso non c’è più molta improvvisazione. I brani sono scritti. Possono essere ispirati da suoni, libri, da tutto quello che un racconto può stimolare nell’immaginario, da suggestioni sonore e vocali. C’è poi una grande attrazione nei confronti della ritmica. Mi attira moltissimo quella che può essere una geometria ritmica di un brano».

In tal senso, quanto influenza la vostra assidua frequentazione con il mondo della danza e del teatro?

«È un connubio che ci attira tantissimo, proprio perché il racconto teatrale, il racconto visivo, può essere di grande stimolo per la creazione di ambienti sonori. Molti dei brani nascono così, come ambienti sonori. C’è una reciproca contaminazione, nel senso che molti danzatori prendono spunto dal nostro lavoro sonoro e noi possiamo essere influenzate da un racconto che può essere rappresentato in teatro. È il caso di Culla e Tempesta e Canto delle Sirene, due brani nati dallo stimolo dello spettacolo teatrale Sagra di Mari di Stefano Benni che abbiamo messo in scena insieme ad Anna Garofalo e Rocco Chiumarulo e che tuttora portiamo in giro: è la storia di Ulisse alla maniera di Benni, raccontato con un linguaggio immaginario che mette insieme lo slang marinaresco con i dialetti delle città marinare».

Perché avete ritenuto importante inserire in questo album la vostra versione di “Bella Ciao”?

«Perché è da tanti anni che portiamo in giro Bella Ciao in questa versione e ogni 25 aprile la riproponiamo. È un giorno che ci rappresenta, è il brano della Liberazione. È il brano che ci deve rappresentare tutti e nel quale noi crediamo moltissimo».

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