– Il debutto del trio formato da un rifugiato curdo-siriano e due tunisini: «Il nome significa mosaico e descrive la nostra identità sia dal punto di vista culturale che musicale». L’album “Lamana” vuole sottolineare il ruolo degli artisti espressione della “voce collettiva”
– Il marranzano e il maestro di Milo, del quale rileggono “L’ombra della luce”, tra le influenze siciliane. «Siamo suoi fan, ma non abbiamo mai avuto l’occasione di conoscerlo di persona. Però nella nostra cultura sufi le anime si incontrano spiritualmente»
Spesso il silenzio fa più rumore di qualsiasi altra risposta. E quando chiedo ai miei interlocutori cosa pensano dell’attuale situazione in Medioriente, loro preferiscono non rispondere. I miei interlocutori sono Ashti Abdo, 42 anni, compositore e polistrumentista curdo-siriano sfuggito al calvario di Aleppo, il tunisino Ali Belazi, 35 anni, cantante autore di musica sufi e operaio in una ditta di fotovoltaico, e Taha Ennouri, 38 anni, percussionista e producer elettronico tunisino nonché operatore sociale. Il primo vive a Lodi, mentre gli altri due a Bologna. Insieme formano il trio dei FusaiFusa, che in italiano significa mosaico.
«Descrive perfettamente la nostra identità sia dal punto di vista culturale che musicale», spiegano. «Le nostre diverse provenienze e background – Tunisia, Kurdistan e Sicilia (Federico Gueci, il nostro bassista) – si intrecciano creando un sound originale. Non si tratta solo di unire culture diverse, ma di creare un nuovo linguaggio musicale che sia universale e accessibile a tutti».
La Sicilia è uno dei tasselli del mosaico sonoro dei FusaiFusa. Taha l’ha attraversata nel suo peregrinare in Europa che lo ha portato a Berlino prima di approdare a Bologna. Ashti è venuto a suonare nel 2020 a Palermo e, in alcuni brani del loro disco di debutto Lamana, si ascolta il marranzano.
«L’esperienza con l’Orchestra del Teatro Massimo è stata a dir poco travolgente», ricorda il musicista curdo-siriano. «Ascoltare la potenza degli archi che accompagnavano Gundê Hember, un brano tradizionale a me caro, ha creato un’emozione inaspettata e di rara intensità. Un connubio tra tradizione e innovazione, che ha reso l’esibizione davvero speciale. Il marranzano, acquistato da un abile artigiano palermitano, è ormai parte integrante del mio arsenale musicale. Il suo suono caldo e vibrante si aggiunge ai miei altri strumenti, creando una sinfonia di culture e di storie diverse. Suonarlo è un po’ come portare un pezzo di Sicilia con me, ovunque vada».
Un altro legame con la Sicilia è Franco Battiato, del quale il trio arabo offre una versione ancora più intensa e mistica del brano L’ombra della luce, un pezzo datato 1991 e inserito nell’album Come un cammello in una grondaia.
«Ali è un grande fan di Franco Battiato, in particolare per le influenze Sufi nella sua musica. Il concept, il testo e l’interpretazione de L’ombra della luce hanno forti connotazioni spirituali vicine al sufismo, che ci hanno toccato profondamente. Abbiamo voluto reinterpretare questa canzone a modo nostro, come omaggio a un grande artista che ha saputo unire culture e spiritualità diverse. Purtroppo, non abbiamo mai avuto l’occasione di incontrare il maestro Battiato, però nella nostra cultura sufi le anime si incontrano spiritualmente».
La vostra musica è un luogo di incontro fra le vostre tradizioni musicali e culturali ed il rock, il jazz, il blues, l’elettronica. Oriente e Occidente possono quindi dialogare, indipendentemente dalle differenze religiose?
«La nostra musica non vuole essere un richiamo dal punto di vista religioso ma culturale, le differenze diventano un valore aggiunto e un aspetto di unione. La nostra musica è semplicemente musica, senza bisogno di ulteriori specificazioni. Per noi, la musica rappresenta un linguaggio primordiale, antecedente persino alla parola stessa. Essa ha il potere di comunicare emozioni, idee e storie in un modo che le parole non sempre riescono a esprimere. La musica è un ponte tra le anime, un canale di comunicazione che ci permette di connetterci a un livello più profondo».
Lamana, il titolo della canzone-manifesto dell’album, cosa vuol dire?
«È una parola araba intraducibile che descrive la forza profonda di affidare qualcosa di inestimabile a qualcuno. Vuole sottolineare il ruolo e la responsabilità degli artisti come espressione della “voce collettiva”. “Artisti alzatevi! Siete la voce del popolo, Lamana è nelle vostre mani, Lamana è la vostra responsabilità”».
Nei vostri rispettivi Paesi, è possibile fare questa musica? L’artista riesce ad avere la libertà di esprimere le proprie ideee?
«La nostra musica possiede una qualità unica: l’universalità. Che risuoni nelle nostre terre d’origine o in qualsiasi altro angolo del globo, essa ha la capacità di connettere e toccare le corde emotive di chiunque l’ascolti. Questo perché la sua ambizione è di rivolgersi a tutti i popoli del mondo, senza distinzioni di confini o culture. Oltre a questa universalità, la nostra musica porta con sé un forte messaggio politico. Essa rappresenta uno strumento di resistenza contro l’oppressione e le avversità che affliggono i nostri Paesi. Attraverso essa, esprimiamo il nostro desiderio di libertà e di cambiamento, alimentando la speranza di un futuro migliore».
Per molti maghrebini, così come per la gente del Medioriente, il futuro è lontano dai luoghi di nascita, è una odissea, spesso tragica, alla ricerca di una nuova terra. Voi nella canzone Exodus, una traversata sonora meditativa e psichedelica, fate un parallelismo fra il viaggio reale dei migranti nel deserto e quello interiore nel lasciare la patria e andare verso una realtà sconosciuta.
«Hai ragione, la migrazione è esattamente come l’hai descritta: un viaggio verso l’ignoto. Chi si trova a dover lasciare la propria terra d’origine lo fa per sfuggire a guerre, discriminazioni, oppressioni razziali e culturali. Si tratta di una scelta dolorosa e spesso disperata, che porta ad affrontare un futuro incerto in un mondo sconosciuto, diverso dalle aspettative che magari uno può essersi creato».
La musica dei FusaiFusa è lussureggiante nelle sonorità e nella strumentazione. Più che un mosaico, sembra un vortice sonoro nel quale la musica ma’luf arabo-andalusa s’intreccia con il tipico cordofono oud, la maestosità della zocra berbera, il fascino del saz curdo, le sperimentazioni elettroniche e le influenze europeo in una dimensione che è al tempo stesso umana e spirituale, terrena e cosmica.
E forse, alla domanda inevasa, alla fine dell’album troviamo la risposta nelle parole e nella musica del musicista curdo Ciwan Haco: Hevala Evîndar è una canzone, di rara profondità emotiva, sulla fratellanza tra combattenti e sulla desolazione lasciata dalla guerra, in un crescendo che culmina in un sentimento misto fra orgoglio e malinconia.