Disco

“Blue Indians” – John Trudell

Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo l’album del sioux poeta e rocker John Trudell, combinazione di poesia, chitarre elettriche, percussioni, tradizioni native e rock  per dire che nel villaggio globale siamo tutti indiani  

Indiani d’America. Un milione di donne e di uomini: avevano l’unico torto di vivere in un territorio immenso e ricchissimo di risorse. Furono braccati, massacrati e umiliati di fronte al resto del mondo. Gli autori di questo genocidio, i pionieri bianchi, si sono sempre difesi con la giustificazione delle inenarrabili atrocità, della non-umanità di quel popolo primitivo. E, fino a pochi anni fa, gli Indiani d’America li abbiamo visti sempre nella parte dei cattivi, dei selvaggi in film nei quali lo spettatore tirava un sospiro di sollievo al rituale “arrivano i nostri”.

Dei veri pellerossa sono rimasti poche migliaia di sopravvissuti: le centinaia di tribù esistenti prima dell’arrivo dei “visi pallidi” sono state costrette a fondersi nelle riserve, sorta di zoo creati per far sì che la loro estinzione sembrasse naturale, o a scegliere la vita nelle città, un esilio in patria particolarmente duro per queste popolazioni legate alle foreste e alle grandi praterie da un sentimento religioso. Per conoscerli abbiamo dovuto aspettare il tenente John Dumbar del Kevin Costner di Balla coi lupi. Già film come Soldato blu e Piccolo grande uomo avevano denunciato la storia ufficiale americana, ma si trattava soltanto di qualche battaglia moralmente vinta contro i bianchi. Balla coi lupi andava oltre: rappresentava un contributo antropologico alla conoscenza della cultura e del linguaggio dei pellerossa, e sovvertiva il punto di vista della ragione puritana. Alla fine, il tenente Dumbar, bianco e nordista, si scopriva indiano.

John Trudell (Omaha, 15 febbraio 1946 – Santa Clara, 8 dicembre 2015) 

C’è chi, però, non ha mai voluto seppellire il cuore a Wounded Knee e ogni giorno ha acceso gli antichi fuochi per evocare i fantasmi dei Comanche, dei Piedi Neri, degli Shoshone, degli Apache, degli Arapaho, dei Cherokee, dei Paiate, dei Sioux. Cambiano i tempi, e invece del tomahawk e delle frecce, i nuovi guerrieri scelgono mezzi meno violenti, ma sicuramente altrettanto efficaci. John Trudell, come Robbie Robertson, ha posto una chitarra elettrica nel fodero dell’arco e una batteria ha sostituito i tamburi. È un guerriero del rock’n’roll. In molti ricorderanno la sua partecipazione ad una delle più riuscite edizioni della Festa del Mandorlo in fiore, nel febbraio del 1995, quando salì sul palco del Palacongressi di Agrigento per una storica performance assieme a Robbie Robertson, ex leader della Band, che aveva all’epoca pubblicato lo stupendo album Music For The Native Americans. John non è stato musicalmente all’altezza di Robbie o “visivamente” pittoresco quanto le sorelle Coolidge, ma la sua lunga e dolorosa vicenda di attivista per i diritti degli indiani d’America ha permeato le sue storie” di una credibilità, di una forza che trova pochi paragoni. E che chiede di arrivare a quante più persone possibile. I suoi readings, le sue poesie, le sue canzoni erano diventati un arco dal quale scagliava frecce avvelenate contro l’ipocrisia dell’America che si propone come rassicurante arbitro e custode della pacifica convivenza tra i popoli, ma continua a rinnegare il “peccato originale” che ne ha segnato la nascita. Il Sudafrica ha smantellato l’Apartheid, i bianchi d’Australia hanno chiesto scusa agli aborigeni, per gli Usa lo sterminio, fisico e culturale, della nazione indiana continua a essere rimosso dalla coscienza collettiva.

L’identikit: un dossier di 1.700 pagine per l’Fbi

Voce dell’American Indian Movement, una credibilità forgiata sulle traversie della vita, John Trudell è cresciuto nella riserva di Santee, tra Nebraska e South Dakota. Per l’Fbi, John Trudell è stato un dossier di 1.700 pagine: sioux del Nebraska, per il riscatto della “sua” gente John ha speso quasi interamente i 69 anni fin quando un tumore lo stroncò nel 2015. 

Nel 1969 era ad Alcatraz all’epoca della invasione dell’isola da parte di esponenti di tutte le tribù della nazione pellerossa, prima grande dimostrazione del rinnovato desiderio di lottare per l’identità culturale negata. L’occupazione terminò due anni dopo e da essa prese lo spunto la nascita dell’American Indian Movement, organismo politico e culturale di cui John fu presidente tra il 1973 e il 1979. 

Il 12 febbraio del 1979 il fuoco distrusse la sua casa nella riserva Shoshone di Paiute, nel Nevada, strappandogli la moglie Tina, i suoi tre figli e la madre di lei. Prove della natura dolosa dell’incendio non furono mai raccolte, o forse vennero accuratamente cancellate. Ma Trudell ha sempre sostenuto che l’Fbi gliel’aveva fatta pagare, fuoco per fuoco, in una barbara riedizione della legge del taglione. Dodici ore prima John aveva bruciato una bandiera americana di fronte al J. Edgar Hoover Building, sede dell’Fbi a Washington, una forma di protesta estrema per il quale era stato immediatamente arrestato. Piegato dal dolore, Trudell da quel momento smise i panni del leader politico per indossare quelli del poeta e del songwriter.

Il poeta, il songwriter, il Sioux

Vicende e sentimenti amari tradotti in parole e musica ne hanno fatto uno dei più importanti musicisti e poeti contemporanei di sangue indiano. Un indiano blu o triste, come s’intitola il suo album del 1999, Blue Indians, nel quale Trudell offre un’interpretazione alternativa del cosiddetto “villaggio globale”, partendo inevitabilmente dal suo punto di vista, quello di un Sioux. 

In un mondo governato dalla tecnologia, sempre più padrona delle nostre vite, dei nostri tempi e ritmi, l’intera umanità appare come una tribù relegata in una riserva, condizionata, limitata nei pensieri come nei movimenti. Il destino dei nativi americani metafora del destino dell’Uomo. Un modo per indurre all’ormai ricorrente riflessione sul collegamento, invisibile ma reale, tra le sorti future di tutti i popoli della Terra. Inquinamento, gap tra Paesi ricchi e poveri, rispetto dei diritti umani: nel confronto con le tematiche globali siamo tutti “indiani”, nessuno può permettersi di delegare ad altri la loro soluzione o sentire la cosa come problema non suo. 

Blue Indians, co-prodotto dall’amico e collaboratore di lunga data Jackson Browne, è l’album che John Trudell aveva sempre sognato: combina poesia, le sue esperienze come attivista nativo americano, chitarre elettriche, canti tradizionali, percussioni, tradizioni native e rock’n’roll. 

Il rock come tomahawk, «perché mi piace, naturalmente e perché sono cresciuto con questa musica», mi disse in quella fantastica sera all’ombra dei Templi. «È stato il suono della mia generazione. Poi vengo dal popolo dei tamburi e nel rock la batteria è uno strumento importante. Viviamo in tribù e anche nel rock esistono le tribù. Con il rock abbiamo qualcosa in più in comune, oltre alla simbologia. La vera differenza sono le chitarre elettriche, ma quelle sono soltanto l’espressione dei nostri tempi, il mezzo che noi usiamo per comunicare con un pubblico più vasto. Sono più potenti di qualsiasi freccia o fucile…».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *