Sino al 9 luglio a Bellano, sulle rive del Lago di Como, la retrospettiva “Franco Battiato. La realtà non esiste”. Sono quindici i dipinti esposti. L’allestimento prevede un approccio devozionale
Un piccolo disegno, tracciato a biro su carta, eseguito in occasione dell’opera musicale Gilgamesh andata in scena all’opera di Roma il 5 giugno del 1992, apre la mostra Franco Battiato. La realtà non esiste fino al 9 luglio allo Spazio Circolo di Bellano, sulle rive del Lago di Como.
L’edizione musicale dell’opera riporta in copertina un dipinto di monaco in preghiera firmato da Süphan Barzani, pseudonimo che Battiato stesso utilizzava per firmare le sue opere. Lo schizzo tracciato a penna blu, gentilmente concesso da Luca Volpatti, architetto e scenografo, è uno dei primi disegni di Franco Battiato, oltre a essere di promemoria e di suggestione per gli allestimenti de “la casa del siciliano” progettati per la scena del secondo atto di Gilgamesh. Al disegno è affiancato un piccolo tappeto persiano sul quale è appoggiato un leggio in legno: pezzi originali utilizzati in scena da Battiato per recitare, accovacciato, il monologo sulla scienza dei suoni. Al bozzetto è ispirato il grande dipinto murale che accoglie i visitatori nell’androne della mostra. Quest’ultimo è una libera interpretazione e un omaggio “curatoriale” al tema paesaggistico dell’opera, un ambiente che rievoca la casa e lo spazio sconfinato, forse della città di Uruk, o i resti della capitale dell’impero assiro. Dominato dal blu lapislazzulo, il murale è composto da due tele simmetriche e speculari di misura 10 x 3 metri ciascuna.
Sono quindici i dipinti presentati nella mostra– oli su tavola fondo-oro e oli su tela provenienti da collezioni private – restituiscono i volti, quasi in forma di icona, degli amici più stretti del maestro di Milo scomparso nel maggio di due anni fa. L’esposizione rappresenta un approfondimento dell’opera di Franco Battiato, fornendo una visione inedita e, ingiustamente, laterale rispetto alla vasta mole di produzione musicale, operistica e cinematografica dell’artista. «È una mostra sull’interiorità. I ritratti di Franco Battiato sono una forma di meditazione, ed esporli è una forma di restituzione ad un artista che ha dato molto». Con queste parole Velasco Vitali, curatore della retrospettiva e anche lui artista visivo di grande sensibilità, introduce all’esposizione.
Avete presente quegli stonati che hanno in testa la nota giusta ma in gola quella sbagliata? Ecco: io non riuscivo a riprodurre la forma esatta dell’oggetto, anche se quella forma sapevo di averla capita. Era una questione di non manualità. La mia idea dell’oggetto era astratta, archetipa. Finché decisi di affrontare la questione. Comprai colori, pennelli e tele e cominciai a dipingere. Il primo anno fu un anno di sofferenza, di sofferenza pura. Talvolta stavo davanti al cavalletto anche per dieci ore di seguito, e la sera disfacevo tutto, come Penelope. Caparbiamente, da solo, senza mai ricorrere a maestri o manuali. Poi, dopo tanti sforzi e tante delusioni, un bel giorno all’improvviso la figura di un danzatore derviscio si materializzò sulla tela, nel modo giusto, nel modo che volevo
Franco Battiato
E dire che Battiato non sapeva disegnare. Anzi, a dirla meglio, era proprio negato: «A scuola prendevo uno, il mio voto nei compiti in classe era quello. Avevo come un blocco dentro di me, un qualcosa che m’impediva di procedere alla regolare esecuzione del cerchio, del quadrato e della linea retta. Ero negato», raccontava Franco Battiato a un divertito Pietrangelo Buttafuoco, giornalista-scrittore conterraneo del Maestro, che nel 2013 era andato a incontrarlo nella casa di Milo per farsi raccontare di questa passione, di quest’amore per i pennelli che l’autore etneo affiancava a quello per le sette note. In un’altra occasione, Battiato mise a fuoco il concetto di questa sua congenita incapacità con le seguenti parole: «Avete presente quegli stonati che hanno in testa la nota giusta ma in gola quella sbagliata? Ecco: io non riuscivo a riprodurre la forma esatta dell’oggetto, anche se quella forma sapevo di averla capita. Era una questione di non manualità. La mia idea dell’oggetto era astratta, archetipa. Finché decisi di affrontare la questione. Comprai colori, pennelli e tele e cominciai a dipingere. Il primo anno fu un anno di sofferenza, di sofferenza pura. Talvolta stavo davanti al cavalletto anche per dieci ore di seguito, e la sera disfacevo tutto, come Penelope. Caparbiamente, da solo, senza mai ricorrere a maestri o manuali. Poi, dopo tanti sforzi e tante delusioni, un bel giorno all’improvviso la figura di un danzatore derviscio si materializzò sulla tela, nel modo giusto, nel modo che volevo. Fu una gioia immensa, anzi di più. Fu un orgasmo cosmico. Ora ci riesco meglio, tutto merito della volontà e della disciplina».
«Battiato si è sempre tenuto alla larga da qualsiasi “atteggiamento”», sottolinea Velasco Vitali, curatore della retrospettiva. «Il suo approccio alla pittura è sempre stato “da dilettante”, come lui stesso ripeteva. La grande dedizione con cui si dedicava alla pittura, secondo me era espressione del suo voler raggiungere uno stile che venisse davvero dalla sua musica…»
«Questa mostra è nata dopo che ho visto il film di Marco Spagnoli (La voce del padrone, nda)», continua Velasco Vitali. «Mi si è acceso il desiderio di restituire a Franco il suo giusto spazio… Perché non ci accorgiamo dell’importanza dei regali se non dopo anni, e poterlo frequentare, anche se non così spesso come avrei voluto, per me è davvero stato un regalo. Quello che vogliamo trasmettere con questa mostra è un ringraziamento per la sua grandezza artistica e la sua “umiltà”, mostrando la metà meno conosciuta della sua arte. Perché tanti quando sentono “Franco Battiato pittore” mi chiedono ancora se è lo stesso Franco Battiato di cui amano le straordinarie canzoni, o i film».
L’allestimento della mostra è rigoroso. Le pareti della sala sono state ridipinte, e i quadri allineati a una bassa fascia chiara che corre lungo tutte le pareti. Il visitatore deve piegarsi, per osservarli; meglio ancora sarebbe contemplarli da seduti, incrociando le gambe su uno dei preziosi tessuti afgani, anatolici e mauritani stesi sul pavimento: sono in prestito da Altai, un ricercatore con sede a Milano, proprietario delle ultime collezioni al mondo di tappeti primitivi di origine nomadica. Un approccio devozionale, “orientaleggiante”, leggermente ironico. «È un invito alla contemplazione dell’immagine dipinta per sperimentare un momento di intimità, non solo con l’opera di Battiato, ma anche con l’opera d’arte in generale, un veicolo verso qualcosa che non conosciamo, capace di riportarci al punto zero».