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Baglioni in tour col pensiero a Lampedusa

Il cantautore romano torna sul palco con l’ultimo atto della sua trilogia, “aTUTTOCUORE”. Un enorme cuore rosso campeggia sul palco in 3D in uno spettacolo kolossal firmato da Giuliano Peparini. La polemica sul tema dei migranti: «Fino a trent’anni fa nessuno sapeva dove fosse quell’isolotto. Con “O Scià” fummo i primi ad accendere i riflettori. Ma i fondi li davano al torneo di bocce piuttosto che a noi»
Lo spettacolo di Claudio Baglioni (foto di Angelo Trani)

Claudio Baglioni torna sul palco con l’ultimo atto della sua trilogia, aTUTTOCUORE. Un enorme cuore rosso campeggia sul palco in 3D, su un megaschermo diviso in tre. Vietato riprendere o fotografare: «Se proprio il demonio della documentazione vi dovesse prendere, fatelo tra qualche giorno, altrimenti ci fate un danno», scherza il divo Claudio in total black come al solito, parlando con il pubblico degli accreditati prima della prova generale. Che finalmente inizia, e l’effetto d’impatto è sorprendente. Oltre tre ore di show, una quarantina di brani in scaletta, 550 costumi di scene, 450 luci a effetto led, ai lati i 21 polistrumentisti della band orchestra diretta da Paolo Gianolio e ben 101 artisti che si avvicendano sul palco oltre a Baglioni: ci sono infatti 52 performers e 28 tra coristi e ballerini. E, ancora, 550 i costumi originali, in una coreografia ideata e progettata dal direttore artistico Giuliano Peparini, che passa con tranquillità dall’Ulisse al Teatro greco di Siracusa all’opera pop.

Le canzoni di Claudio sono scritte nelle nostre memorie. La loro portata universale attraversa gli anni e parla a tutte le generazioni. Attorno a questi trenta titoli, ho voluto mettere in scena uno spettacolo che illumini tutto questo cammino dove la gioia di vivere, la malinconia, la follia e tutte le arti della scena fanno una sola voce per liberare finalmente una sola cosa: un grande grido d’amore».

Giuliano Peparini

«Le canzoni di Claudio sono scritte nelle nostre memorie», commenta il regista e coreografo. «La loro portata universale attraversa gli anni e parla a tutte le generazioni. Attorno a questi trenta titoli, ho voluto mettere in scena uno spettacolo che illumini tutto questo cammino dove la gioia di vivere, la malinconia, la follia e tutte le arti della scena fanno una sola voce per liberare finalmente una sola cosa: un grande grido d’amore».

«Lo definirei un Paese delle meraviglie, di sera in sera scopro cose nuove», interviene Baglioni. «Chi sceglie di venire a vedere uno spettacolo deve essere stupito. Tempo fa si parlava di musica di evasione: ecco, non possiamo far scendere il numero di tragedie che ci sono nel mondo, ma possiamo far salire quello delle cose belle e sognanti». 

E, in tema di tragedie, il pensiero non può non andare ai migranti che ogni giorno sbarcano a Lampedusa, dove il cantautore è cittadino onorario e “padre” di “O Scià”, il festival che si è svolto dal 2003 al 2012 sull’isola delle Pelagie per accendere un faro sugli sbarchi e sull’integrazione fra etnie. «È una storia lunga trent’anni, una storia che ora ci mette il conto davanti. La geografia non la possiamo cambiare. Col senno di poi dico che se ci avessimo messo le mani e i pensieri venticinque, trent’anni fa, forse non saremmo arrivati a questo punto. Ora sono cavoli per tutti», spiega Baglioni. «Bisogna solo attrezzarsi per poter trovare una soluzione senza che questi argomenti diventino materia per scopi elettorali, perché altrimenti non se ne viene fuori».

«Con quella rassegna abbiano cercato di dire che stavano accadendo già queste cose, e di dirlo a chi aveva i mezzi», affonda Baglioni. «Forse era inevitabile, perché in effetti una soluzione vera nessuno l’ha mai messa in atto». E poi tiene a sottolineare: «Tutti abbiamo diritto di cercare una situazione migliore per la nostra vita, non possiamo condannare chi lo fa, così come non possiamo neanche condannare chi non ne può più perché crea disagi».

Per O Scià i contributi bisognava faticarseli ogni anno, è stata un po’ una delusione perché pensavamo di aver costruito una cosa importante. Aveva caratteristiche di spontaneità ed era diversa dal resto, ma bisognava battersela col torneo di bocce che si svolgeva da un’altra parte. In ogni caso è finita e io mi sento un po’ sconfitto, perché trovo che purtroppo non sia cambiato niente

Claudio Baglioni

Infine, si toglie qualche sassolino dalle scarpe sugli anni della direzione artistica di “O Scià”: «I contributi bisognava faticarseli ogni anno, è stata un po’ una delusione perché pensavamo di aver costruito una cosa importante. Aveva caratteristiche di spontaneità ed era diversa dal resto, ma bisognava battersela col torneo di bocce che si svolgeva da un’altra parte». In ogni caso «è finita e io mi sento un po’ sconfitto, perché trovo che purtroppo non sia cambiato niente».

Sull’isola e sui suoi abitanti «sono state dette tante cose inesatte», aggiunge Baglioni. «Lampedusa fino a trent’anni fa non sapevano bene nemmeno dove fosse. La popolazione è fatta di persone che vivono in alto mare, è uno scoglietto d’Italia più vicino alla Tunisia che non all’Italia, e sono persone che hanno mostrato da sempre interesse e benevolenza. Fin da quando i telegiornali nemmeno sapevano cosa accadeva. C’è gente che accorreva, portava il suo cappotto vecchio, hanno in loro questo di soccorrere un altro essere umano. Il fatto che uno se ne meravigli mi stupisce».

Un momento dello show aTUTTOCUORE (foto di Angelo Trani)

Tornando allo spettacolo, l’impatto è tale che l’idea che possa ambire a spazi ancora più grandi è lecita e Baglioni conferma: «Sì, può essere considerata una prova generale per lo stadio in vista dell’anno prossimo, senza cercare di perdere il contatto con il pubblico». Dopo il Foro Italico, dove sono in programma sei date, aTUTTOCUORE si sposta all’Arena di Verona (il 5, 6, 7 8 ottobre), poi al Velodromo di Palermo (12, 13, 14 ottobre) e all’Arena della Vittoria di Bari (20 e 21 ottobre). 

«Spesso gli artisti veterani cercano il monumento autocelebrativo, che diventa una cerimonia collettiva in cui non c’è più niente di propulsivo», riflette il cantautore romano alla fine della prova generale davanti a qualche centinaio di ospiti prima del debutto del 21 settembre allo Stadio Centrale del Foro Italico. «Ma il pubblico va anche guidato e noi artisti abbiamo la responsabilità di cambiare qualcosa, non di dare solo quello che si aspetta. Dobbiamo dimostrare che non siamo fermi, ma che stiamo camminando verso qualcosa di nuovo e di diverso. Cercare la non omologazione».

Tempo per Sanremo? «No, a gennaio riprendo con le date indoor. Magari l’anno prossimo», scherza. «E poi io ho già chiesto di tornare a fare il direttore artistico, con 16 canzoni in gara. Tutte mie, così posso vincere».

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