Il pianista di Recife il 17 marzo in concerto al Parco della Musica di Roma. Interpreta il suo strumento come se fosse un tamburo. «Chick Corea e Ray Charles i musicisti che mi hanno più influenzato». Nell’album “Sankofa” va alla ricerca delle sue origini africane
Dai bassifondi della città costiera brasiliana di Recife, Amaro Freitas è diventato un pianista jazz di fama internazionale. Guadagnando l’attenzione internazionale per «un approccio alla tastiera così unico che è sorprendente» (Downbeat), ricevendo riconoscimenti da artisti del calibro di Herbie Hancock. Il suo album di debutto Sangue Negro (2016) e il successivo Rasif (2018) sono stati accolti da un’ondata di consensi. Il prossimo 17 marzo sarà in concerto al Parco della Musica di Roma.
Amaro Freitas interpreta il pianoforte come se fosse un tamburo con ottantotto toni unici, mostrando affinità con leggende del jazz come Thelonious Monk e maestri brasiliani come Hermeto Pascoal ed Egberto Gismonti. Nelle sue composizioni integra ritmi afro-brasiliani come il maracatu, originario delle piantagioni di zucchero, e i ritmi carnevaleschi ad alta intensità di frevo e baião.
«Un album che mi ha cambiato è stato Alive di Chick Corea», commenta. «Questo album è stato registrato nel 1991 al Blue Note Jazz club di New York. È stato il primo Dvd che mi è stato regalato e ha cambiato il modo in cui percepisco la musica. Ascoltando la sua musica ogni singolo giorno, mi sono commosso e ho iniziato a navigare nell’universo Jazz. È stato quando ho saputo che mi sarei guadagnato da vivere con la musica».
Ray Charles è stato però il musicista che più lo ha influenzato. «Un pianista di origine africana proprio come me, la sua vita e il suo lavoro mi hanno ispirato a credere che sia possibile guadagnarsi da vivere attraverso la musica nonostante le difficoltà», confessa. «La voce e il pianoforte di Ray cantavano e suonavano il clamore dei lavoratori di campagna e dei loro antenati ed è in qualche modo quello che voglio suonare con il mio pianoforte. Il pianoforte di Ray è un’estensione della sua anima».
Il suo ultimo album Sankofa è un percorso a ritroso in cerca delle sue origini africane. Il titolo riporta un simbolo adinkra, il sistema di scrittura dei popoli Akan dell’Africa occidentale. La sua rappresentazione è un uccello che vola in avanti con la testa girata all’indietro e nel becco un uovo, il futuro. Come a indicare che la musica progresso ma allo stesso tempo rivisita l’eredità dimenticata della cultura afro-brasiliana.
Amaro Freitas ha visto il sankofa impresso su un camice comprato da un signore senegalese ad Harlem, New York, senza sapere cosa fosse. Finché un amico non glielo ha rivelato e tutto è cambiato. Come il sankofa, in questo album, Amaro guarda indietro, salutando e rivelando l’ascendenza del popolo afro-brasiliano. Racconta storie solo con il suono che nasce dall’emozione di incontrare personaggi e narrazioni che lo hanno formato, ma che sono state cancellate dall’azione di chi, con il potere, ha forgiato verità e storia ufficiale. È un lavoro in linea con la tendenza di riscrivere le narrazioni coloniali e colonizzanti.
«Penso che attraverso questo percorso potrei capire di essere una continuazione di questa ascendenza», spiega il pianista brasiliano. «In qualche modo, se una storia, nel progetto sociale del mio Paese, è stata negata, se cerco dentro di me può emergere. Nel mio caso, attraverso il suo suono. Sankofa si tuffa nella storia del Brasile nero; di riferimenti, simboli, personaggi che rappresentano la diaspora africana».
A ispirarlo è stata Djamila Ribeiro, una delle voci più importanti sul razzismo strutturale in Brasile. «Un’attivista che parla sempre per i più vulnerabili, la sua voce raggiunge tutti gli angoli del Paese e aiuta a dare speranza a molte famiglie», spiega Amaro, per il quale la più grande paura «è che non possiamo fermare il danno che abbiamo causato al nostro pianeta. Temo per l’Amazzonia, il Pantanal e il riscaldamento globale. Temo di non avere il tempo di fermare tutto questo».