Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo quello che è il disco d’esordio di Alfio Antico, il dio tamburo, finalmente ascoltabile in digitale. Il mondo ancestrale di un pastore contaminato dalle esperienze con la musica napoletana, la canzone d’autore e il jazz
Anima ‘ngignusa forse non è l’album più popolare e conosciuto di Alfio Antico. Il più importante senz’altro, per diversi motivi. Il primo perché è il suo esordio discografico nati casualmente, come tanti episodi nella vita del maestro dei tamburi. Il secondo perché segna il passaggio dal suo periodo “napoletano” con Musicanova di Eugenio Bennato, del quale ancora si avvertono degli echi, alla riscoperta della sua terra, la Sicilia.
Il terzo perché il mondo ancestrale che il percussionista lentinese tramanda nel suo tamburo a cornice, nella sua voce, nelle sue canzoni comincia a intrecciarsi con la contaminazione. Con la canzone d’autore sfiorata nelle collaborazioni con Fabrizio De André e Lucio Dalla e con il jazz di Amedeo Ronga al contrabbasso, Paolo Sorge alla chitarra e Raffaele Brancati ai fiati. Tutti musicisti siciliani, incontrati nel suo girovagare per il Paese, tranne Amedeo Ronga, toscanaccio all’apparenza, napoletano d’origini.
«Amedeo mi chiamò per dargli una mano in un gruppo di musica popolare», ricorda Alfio. «Io ero già famoso come il tamburellista di Eugenio Bennato, mentre Amedeo è un musicista d’estrazione jazz e la sua conoscenza di musica popolare era superficiale». Fu al ritorno da un concerto, lungo una curva nel Chianti, che il lentinese lancia la proposta: «Facciamo un duo: tu al contrabbasso, io al tamburo e suoniamo una musica a cavallo tra l’antico e l’avanguardia». Ronga non era del tutto convinto, ma accettò.
L’esperimento ebbe successo. Fecero concerti anche all’estero. Erano così tante le richieste, che pensarono di registrare una demo. Per registrarla si rivolgono a Raffaele Brancati che possedeva uno studio nelle vicinanze di Siena e che Alfio conosceva dai tempi di Lentini. «Prima mangiamo, poi registriamo» li accoglie Brancati, parente del celebre scrittore siciliano. Fra bicchieri di Chianti, formaggi e insaccati, s’instaura una nuova amicizia ed il duo si allarga. Registrano in tre, ma quella demo non uscirà mai. Nasce, invece, un progetto in trio che «gira l’Italia e l’Europa per tre anni, dal 1997 al 1999, dandoci molte soddisfazioni» ricorda Brancati. «Era un progetto musicale acustico, scarno, essenziale, sulla musica popolare. Alfio dava molta attenzione alla presenza scenica, senza tuttavia dimenticare il messaggio» prosegue. «C’eravamo ritrovati attorno alla sua idea di lavorare a un’avanguardia popolare. Volevamo dar vita a una musica popolare libera da cliché, da forme prestabilite, pur mantenendoci legati a un linguaggio arcaico-popolare, che era il mondo percussivo e poetico di Alfio». Brancati, con la sua formazione musicale che spazia dalla classica al jazz sino alla popolare, fa da collante nel progetto.
«Perché non registriamo un album? Forse è venuto il momento» butta giù Raffaele sulle ali del successo. «Conosco la persona giusta con cui realizzarlo». È Gigi Esposito, direttore artistico di un jazz club di Matera, città nella quale Brancati aveva frequentato il Conservatorio, partecipando all’Orchestra per musicisti non residenti formata con fondi Unesco.
L’Onyx, etichetta jazz che aveva in catalogo dischi di Bruno Tommaso, Nicola Arigliano e Paolo Fresu, e che portava avanti studi sulla civiltà e la cultura rurale, apre le porte al trio. «Non avevamo dubbi sullo stile e sul repertorio, ma sul metodo» spiega Brancati. È con l’inserimento del chitarrista jazz Paolo Sorge che l’immaginario poetico prende forma. «Abbiamo trovato il metodo e tutto è filato liscio. È stata una esperienza utile anche per Alfio che fino a quel momento non aveva realizzato un progetto solista».
Il Sancho Panza diventa Don Chisciotte. Dai Sassi di Matera, da quei muri, da quelle grotte, da quelle fessure, esce un’anima aperta che canta, libera, attraverso quelle crepe, dove da tempo era imprigionata. È l’Anima ‘ngignusa, ingegnosa e creativa, che dà il titolo al primo album solista di Alfio Antico, pubblicato nel 2000. Sulla copertina il dio tamburo.
Anima ‘ngignusa è un disco d’istinto, certificazione gioiosa di un’identità trovata e lungamente cercata. Il brano che dà il titolo all’album è una sorta d’indovinello sul tamburo e sul rapporto di simbiosi che si crea tra Alfio e lo strumento. Il disco è una immersione in un universo ancestrale, evocando ricordi e nostalgie d’adolescente e rivelando il suo gusto per tutte le forme d’espressione.
Le filastrocche sono il materiale dal quale attinge Alfio, il ragazzino che non ha mai avuto giocattoli, che ha trascorso l’adolescenza facendo il pastore. La filastrocca di Re Bufè la puoi immaginare raccontata da un vecchio a un bambino, ma la stessa filastrocca può diventare un pezzo teatrale, ironico, comico, può diventare poesia, gestualità e tutto assume aspetto sempre diversi. Anima ‘ngignusa potrebbe essere un bambino preso dal gioco e un vecchio che lo osserva, e più lo osserva più si rilassa rimanendogli accanto felicemente».
Barulè, tra funky alla James Senese e richiami mediorientali, camapelle e fischi di richiamo, racconta la storia della pecora beniamina di Alfio ritrovata morta: con la sua pelle l’allora pastore realizzò il primo tamburo, chiamato appunto “Barulè”. Un documento sonoro di incredibile realismo che ci riporta all’interno di un gregge durante la transumanza.
Se Occhi di Ciumi ci riporta alle atmosfere delle tammurriate napoletane e Ventu e carestiaè improvvisazione jazz, la dolcissima ballata Lettera d’amuri rimanda alla canzone d’autore, morbidamente accarezzata dal contrabbasso di Ronga e sottolineata dai fiati di Brancati. Non c’è cesura tra quando scrive i versi delle sue canzoni e la vita quotidiana, le persone che vede o incontra. L’osservazione di un passariddùzzu tra ulivi e mandorleti può riportargli alla mente un vecchio amore. Che si riaccende per una lettera. Una Lettera d’amuri, appunto. Alfio dimostra di essere anche un interprete intenso. Mentre nell’assolo in Tarallesa – Fava dà riprova delle sue enormi abilità al tamburo, durante il quale mette in mostra tutto il suo repertorio.
Altre “lettere d’amuri” ispirano Desiderio e serenata, brano che per un errore di trascrizione esce con il titolo Desiderio essere nata. È la corrispondenza tra i suoi genitori, quando ancora erano segreti fidanzati, ai quali era vietato incontrarsi perché i nonni materni erano contrari. Una di quelle lettere mamma Lina volle portarsela con sé nella tomba, infilata nel reggiseno, accanto al cuore. «Mi colpì una frase» ricorda Alfio. «Mia madre scriveva: “Caro amato mio Turillo. Sono qua seduta sullo scalone della mia casa che tu conosci bene quando ogni tanto vieni a prendere gli ordini del massaro Puddu”». Da lì nasce il dolce ritornello della canzone: “Vorrei essere una pietra del tuo scalino / Dove ogni giorno ti poggi a sedere”.
Da questo suo peculiare universo, fatto di spezzoni di paesaggi e frammenti di semplici melodie zufolate, di rumori della natura, lo stormire del vento fra i rami, il belare delle pecore, Alfio comincia la sua ricerca. Tribale, naif, bucolico e mitologico, porta i colori nella Sicilia in bianco e nero di Elio Vittorini. La sua musica non è rielaborazione di tradizioni popolari siciliane, ma un suo personale percorso interiore, espressione carnale che attraversa tutte le sue esperienze. Il suo è un impressionismo che potrebbe chiamarsi interiore o di memoria. In questo paesaggio ogni colpo di tamburo è una pennellata rapida e volante, che dissemina brevi note di colore puro. Nel suo tamburo c’è una Sicilia aspra e dissonante, ci sono gli “astratti furori” vittoriniani e c’è la rabbia. Melodia, percussioni, voci e i timbri dei vari strumenti fanno da sottofondo al suo ribollire profondo. «Penso spesso alla curiosa coincidenza del mio cognome. È come avere l’occasione di rimanere sull’epoca che mi appassiona, sull’antico, appunto, che mi piace definire così piuttosto che vecchio, perché non lo sarà mai».
L’album ottiene un notevole riscontro. E subito sfiora il Premio Tenco. Adesso quel leggendario album è finalmente in versione digitale e si può ascoltare su Spotify.