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Whitney Houston, la diva triste

In sala dal 22 dicembre il film biografico “Whitney: una voce diventata leggenda” con Naomi Ackie nel ruolo della grande popstar. Ben più espressivo il titolo originale: “I wanna dance with somebody”, perché la cantante cercava qualcuno da amare. «È un film celebrativo del suo talento. Volevamo, senza essere irrispettosi, raccontare la storia dell’essere umano dietro l’icona. Una donna con difficoltà profonde in cui ci si può identificare», spiega la regista

Bella come una dea. Voce e silhouette da brividi. Quando faceva la fotomodella, Harper’s Bazaar era fiero di quella sensuale e felina aggressività post adolescenziale. All’epoca, erano i primi anni Ottanta, Whitney Houston non aveva ancora una carriera discografica garantita. Era figlia d’arte, sua madre Cissy era stata leader delle Sweet Inspirations, Dionne Warwick sua cugina, Aretha Franklin madrina di battesimo. L’abbiamo vista crescere, diventare una star, nuova Lena Horne della canzone e del grande schermo. E in meno di dieci anni superare ogni record: 170 milioni di album e 55 milioni di singoli venduti; una canzone, I will always love you, tratta dal film The Bodyguard, interpretato al fianco di Kevin Kostner, è ancora oggi la più venduta della storia, un evergreen del pop; un contratto da 100 milioni di dollari nel 2001, 411 premi tra cui 6 Grammy Awards. Aveva una tecnica sovrannaturale e sul piano vocale era in grado di cantare praticamente qualsiasi cosa, un modello da imitare per una generazione di cantanti internazionali, da Beyoncé a Giorgia.

Poi l’abbiamo vista fragile, sciupata, isterica, infangata da sordide biografie non autorizzate che raccontavano di complicate relazioni lesbiche, di rapporti familiari e sentimentali violenti, di gravi inadempienze contrattuali. Una storia non tanto dissimile da quella di Michael Jackson: padre padrone, infanzia difficile, sessualità borderline, stupefacenti e medicinali a go go, matrimonio da incubo, ripetuti aborti, una figlia che già adolescente finisce sui tabloid. Per sette anni ha lottato con i suoi demoni, la depressione, gli stupefacenti, l’alcol, partecipando con l’ex marito Bobby Brown a un imbarazzante reality show, a base di pugni e droga, fughe e riappacificazioni. È apparsa disorientata e senza voce a concerti che non era in grado di sostenere, ha disertato un’apparizione agli Oscar ed è stata fotografata in uno stato che denunciava una devastante anoressia. L’abbiamo rintracciata davanti a un lavandino disseminato di polvere bianca, pipe per fumare il crack, cartine e cucchiai per prendere la droga in una villetta del sobborgo di Alpharetta, vicino ad Atlanta, per poi vederla più volte entrare in lussuose cliniche per disintossicarsi: l’ultima volta nel maggio 2011, quando si apprestava a tornare sul set per il sequel di Donne – Waiting to exhale.

Quella libellula nera, magnifica, elegante, invidiata da tutti, slanciata nel fisico e nella voce, una di quelle figure a cui non sembrava mancare nulla, che incarnava le proiezioni immaginifiche di milioni di ragazze, era diventata una caricatura, un esempio devastante, un cartoccio di infinite tristezze, il rovescio esatto del limpido sogno che evocava. Trasformando le tappe di una carriera che poteva essere meravigliosa in un tormentato calvario. E la sua scomparsa è il capitolo finale di una fragilità diventata ormai cronica.

È la storia che la regista Kasi Lemmons ripercorre nel film Whitney una voce diventata leggenda, come è stato infelicemente e banalmente tradotto in italiano il titolo originale I wanna dance with somebody, che meglio sintetizzava la vita della cantante. Perché “The Voice”, come fu ribattezzata Whitney Houston, non era altro che una ragazza che voleva ballare con qualcuno che l’amava. Invece è morta sola nella vasca da bagno del Beverly Hilton Hotel dieci anni fa, a 48 anni.

L’attrice e cantante britannica Naomi Ackie che impersona Whitney Houston nel film
Naomi Ackie e, a destra, Whitney Houston

A incarnare la cantante è la britannica Naomi Ackie, attrice e cantante anche se nel film ci sono le esibizioni originali di Whitney Houston. «Il motivo per cui con la famiglia abbiamo scelto Naomi, oltre al suo averne catturato l’essenza, è stata la sua voce da cantante: ho potuto usarla quando canta libera e lascia che la sua voce si mescoli con quella di Whitney nelle esibizioni. Naomi canta con lo stesso registro, e sul set si esibiva davvero: questo ha reso tutto più credibile. E poi è un’attrice fenomenale», ha spiegato la regista.

Impossibile non ripensare al docufilm di Kevin Macdonald del 2018, che affrontava il passato oscuro di Whitney, le molestie subite dalla zia Dee Dee Warwick: «Penso di averlo interiorizzato, quel lato», spiega Naomi. «Whitney, consapevole o meno, adattava la sua immagine, era al servizio di chi le era intorno e del pubblico globale. Cercava di affrontare le proprie difficoltà, stando attenta alle reazioni dei suoi cari». Per la regista, questo «è un film celebrativo del talento di Whitney. Volevamo, senza essere irrispettosi, raccontare la storia dell’essere umano dietro l’icona. Una donna con difficoltà profonde in cui ci si può identificare».

Il film dedica spazio al rapporto con l’amica e innamorata Rubyn: «Chissà cosa sarebbe successo se Whitney non fosse stata messa sotto pressione dall’esterno, dall’immagine da fidanzata d’America che sentiva di dover mantenere. Robyn era dalla sua parte, teneva a lei. Volevamo sottolineare la forza e la bellezza della loro amicizia».

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