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Nanni Moretti: faccio film per chi va al cinema

Il regista romano presenta “Il sol dell’avvenire” nelle sale dal 20 aprile. «Un film politico? No, personale». Il cinema italiano? «Autori e film ci sono. Manca la cura. Troppi film sono mandati allo sbaraglio». «Le piattaforme vanno bene per le serie»

«Un film politico? No, personale. Tutti i miei film sono personali. Questo è più personale». Nanni Moretti smorza sul nascere i primi commenti sul suo ultimo film, Il sol dell’avvenire, in uscita in 500 copie il 20 aprile e quindi in concorso al festival di Cannes il prossimo maggio.

Moretti è di ottimo umore, non suda come in studio con Fabio Fazio a Che tempo che fa, modera da sé la conferenza stampa che segue una proiezione molto applaudita, ma mette comunque le mani avanti: «I miei attori sanno parlare del mio film molto meglio di me». E difatti, del film in sé Moretti non dice poi tantissimo. Si limita ad aggiungere sul film che «ci sono temi e personaggi che ho affrontato nel mio cinema precedente, ma la recitazione la regia e la scrittura diversi perché col tempo si cambia come persone – poco poco, ma nei decenni si può cambiare –  e quel poco si riflette in come lavori».

Il sol dell’avvenire, in effetti, sono tre film in uno, in verità: protagonista è Giovanni un regista (Moretti in un nuovo alter ego dopo Michele Apicella) sposato a Paola una produttrice (Margherita Buy, la loro quinta volta insieme) che stanno girando un film ambientato nel 1956 nei giorni dell’invasione sovietica in Ungheria (con Silvio Orlando giornalista dell’Unità e segretario di una sezione del PCI intitolata a Gramsci, legato a Vera, Barbora Bobulova). Ma il film che Michele vorrebbe girare è una storia d’amore tra due ragazzi negli anni Settanta, piena zeppa di canzoni italiane: Tenco, De André, Battiato. «Volevo raccontare questo, l’idea del film del 1956 l’avevo già prima di Tre piani, avevo scritto un abbozzo si sceneggiatura, ma l’abbiamo concentrata sulla vita del regista». Ovvero Giovanni, che vediamo in monopattino per piazza Mazzini, in battaglia contro i film violenti e le piattaforme. Nella scena in cui cerca finanziamenti, accompagnato dalla moglie produttrice (Margherita Buy), i dirigenti di Netflix gli bocciano la sceneggiatura per motivi di ritmo. «Manca il momento “what the fuck”, arriva tardi il “plot time”» e altri tecnicismi messi alla berlina per far capire come sia tutto studiato a tavolino. «Ho sempre reagito andando contro l’onda. A metà anni Ottanta quando si facevano film fintamente internazionali ho creato la Sacher per fare film radicati nel territorio. Poi quando chiudevano le sale ho aperto il mio cinema. Ora faccio film per chi va al cinema. Le piattaforme vanno bene per le serie».

Nella scena finale del film – una parata Fori Imperiali – Moretti è in mezzo alle bandiere rosse, ai suoi attori, agli elefanti del circo Budavari. «Un ciak nato per caso, con quel saluto chiudo la prima fase della mia carriera a cui ne seguirà un’altra di cinquant’anni e forse anche una terza» scherza.

E torna serio quando si tratta di parlare del cinema italiano: «Autori e film ci sono. Manca la cura. Troppi film sono mandati allo sbaraglio». E, parlando della sua partecipazione in concorso al prossimo festival di Cannes, aggiunge: «Il mio film è in gara con due bravissimi cineasti. Alice Rohrwacher è una regista molto interessante e di Marco Bellocchio non devo parlarne io».

Quel che Moretti lamenta, e non per sé, è una generale mancanza di cura relativa al cinema. «Voi che fate questo lavoro», dice rivolto alla sala di giornalisti e addetti ai lavori, «sapete meglio di me quanti film d’autore e d’essai, film che un tempo erano curati e coccolati e ricevevano l’attenzione dovuta, vengono oramai gettati allo sbaraglio, un po’ a casaccio, e il pubblico non capisce cosa sta uscendo, e che film siano quelli al cinema. Non è una cosa bella». 

Il cinema italiano, secondo Moretti, «è vivo, come sempre, un cinema di film e di registi cui manca però cura e attenzione: e parlo ad esempio della mancanza di belle trasmissioni sul cinema in tv, come ci sono sui libri. Manca la cura al cinema come fenomeno artistico e industriale. Il pubblico, poi, a volte riserva piacevoli sorprese, sfido chiunque ad aver pronosticato il successo che ha avuto Le otto montagne, ma bisognerebbe parlare anche dei tanti film supposti commerciali che vengono prodotti e che poi commerciali non sono stati per niente».

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