Il primo gennaio segnerà il ventennale della scomparsa di Gaber, morto nel 2003, e, da mezzanotte a mezzanotte, sul sito della Fondazione e sul canale Youtube andrà in onda una maratona video che racconta il percorso davvero unico di un artista e un intellettuale. Una occasione da non perdere per (ri)scoprire il cronista dei nostri “anni affollati”, un artista che ha rappresentato, nel mondo della canzone d’autore, l’impegno sociale, politico, umano
In tempi di profonda crisi materiale e spirituale, in un’epoca in cui la società occidentale sembra avvicinarsi e quasi volontariamente affrettarsi verso la fine della sua parabola, uno come Giorgio Gaber avrebbe fatto comodo. Perché manca davvero tanto quella sua capacità di guardare oltre il muro, di anticipare l’intensità e la sfumatura delle nuvole, quasi sempre scure, in arrivo sopra l’orizzonte. Come manca quell’ironia, quello sberleffo al potere ma anche al borghese piccolo piccolo che è in noi. Un’ironia amara ma capace sempre di far spuntare un sorriso dal buio. Gaber non c’è più da vent’anni. Morì esattamente il primo gennaio 2003, poco prima di compiere 64 anni, nella sua casa di campagna a Montemagno di Camaiore, nei pressi di Lucca. E per ricordarlo a chi lo ha conosciuto e amato e per farlo conoscere a quanti non hanno mai sentito una sua canzone, domenica 1 gennaio da mezzanotte a mezzanotte, sul sito della Fondazione e sul canale Youtube andrà in onda una maratona video che racconta il percorso davvero unico di un artista e un intellettuale che aveva cominciato la sua carriera come pioniere del rock’n’roll negli anni Cinquanta e che, unendo l’amore per il jazz e per la canzone francese a doti non comuni di entertainer, era diventato uno dei personaggi più amati della musica e della televisione prima di intraprendere un percorso coraggioso e dirompente che lo avrebbe portato a dar vita al Teatro Canzone, una forma del tutto nuova di rappresentazione in cui la canzone e il monologo si fondono in uno spettacolo che per decenni è stato un punto di riferimento necessario per la riflessione collettiva sull’evoluzione e i cambiamenti della società.
Con il suo “Signor G”, figura metaforica di un uomo di fronte ai problemi del Paese inventata nel 1969, ha messo il dito sui disastri dell’Italia con il dubbio e la passione di una generazione di militanti. Via via, il “Signor G” si trasformerà in un militante passionale (I borghesi), in un incazzato anarchico (Anche per oggi non si vola), in un osservatore ironico di una realtà psicotica (Libertà obbligatoria), in un allarmato anticipatore di una società inquinata (Polli d’allevamento), fino a un novello Godot che, in attesa di una società giusta, viene schiacciato nella finzione televisiva (La strana famiglia).
Giorgio Gaber è stato il cronista dei nostri “anni affollati”, un artista che ha rappresentato, nel mondo della canzone d’autore, l’impegno sociale, politico, umano. Per quarant’anni ci ha accompagnati nell’esplorazione, ora satirica e divertita, ora dolente e drammatica, della nostra attualità. Nei suoi ultimi album La mia generazione ha perso del 2001 e Io non mi sento italiano del 2003 aveva previsto tutto. Ci aveva avvertiti alla sua maniera, senza troppi complimenti, anticipando tutto il male e il disorientamento sociale che ci portavamo già dentro come un cancro, spingendosi a ipotizzare, in mancanza di un nuovo umanesimo che in effetti non si è visto, scenari inquietanti ed estremi di fronte ai quali sarebbe stato impossibile per chiunque chiamarsi fuori: “I mostri che abbiamo dentro/crescono in tutto il mondo/i mostri che abbiamo dentro/ci stanno devastando./I mostri che abbiamo dentro/che vivono in ogni mente/che nascono in ogni terra/inevitabilmente ci portano alla guerra”.
Nel caos della società odierna, nel declino del mondo occidentale, nel vuoto di idee che ci riconduce al passato, sarebbe stato importante avere i Gaber e i De André a farci un po’ di luce e ad aiutarci a tenere occhi aperti e cervello acceso. Così ogni occasione che ripropone le loro parole e il loro pensiero va accolta come un dono prezioso, come una opportunità per tornare a inocularsi un vaccino vitale contro la banalità e la volgarità di una farsa da basso impero che rischia di portarsi via tutto come un’onda in piena.