Interviste

Giovanni Baglioni: le mie canzoni senza parole

Il figlio d’arte presenta “Vorrei bastasse” dopo 14 anni di “vuoto discografico”. «Vorrei essere identificato per il risultato conseguito e non dipendere sempre da chi sei». L’incontro folgorante con la musica di Tommy Emmanuel. Nel brano “Emisferi” suona contemporaneamente la chitarra e il piano
La copertina dell’album

Quando Giovanni Baglioni, nel 2009, si presentò con il suo primo album Anima meccanicasuscitò subito curiosità. Sia per il contenuto del disco, musica strumentale suonata con la chitarra, ma, soprattutto, per il cognome. Pesante. Certe volte un lasciapassare, altre un’ombra dalla quale è difficile liberarsi. 

Quattordici anni dopo, trascorsi o in tour con papà Claudio o da solo e scrivendo musiche per il teatro e la danza, superate perplessità, inquietudini, indecisioni, l’ex bambino di Avrai, il brano di gran successo scritto per la sua nascita, si ripresenta con la seconda prova d’autore. Che già nel titolo è un programma: Vorrei bastasse. Vorrei bastasse perché si parli di me e non del fatto di essere figlio d’arte.

«Questa è senz’altro una lettura», commenta. «Di fondo c’è un senso di inquietudine, di insoddisfazione, di frustrazione, aspetti che avrei voluto avessero un altro svolgimento. Oggi c’è sempre meno interesse all’essenza in favore dell’apparenza. Di molti artisti sulla cresta dell’onda conosco la posizione geopolitica, le idee rampanti sui diritti civili, ma non so nulla della loro opera d’arte. Eppure, è questa che definisce l’artista».

Quanto è difficile la condizione di figlio d’arte?

«È l’unica condizione che conosco. Non è facile valutare un’alternativa. Certamente ci sono molti vantaggi: l’esposizione, la curiosità che c’è attorno a te. Ma anche tante difficoltà a scardinare il motivo che ha originato quella curiosità. Essere identificati per il risultato che hai conseguito e non dipendere sempre da chi sei».

Giovanni Baglioni con papà Claudio

L’aver scelto di comporre brani soltanto per chitarra è un modo per tenersi lontano dal paragone con suo padre o perché sulla strada di Damasco è stato folgorato dalla chitarra di Tommy Emmanuel?

«La seconda. Avrei potuto trarre vantaggi nel cimentarmi nella tipologia di musica di mio padre, ma non è stata una scelta a tavolino. È stato proprio un disco del chitarrista australiano a far nascere l’attrazione per la chitarra. Avevo più di vent’anni quando mi fu regalato da amici di famiglia. È stato da stimolo a essere autore, compositore, a crearmi un repertorio in quel genere, il fingerpicking».

La sua è musica che necessita di un ascolto attento, oggi forse questa abitudine si è persa.

«È una verità e mi sembra assurdo. Perché il disco ha bisogno di essere ascoltato. È la cosa più naturale. Eppure, è passato in disuso. Fortunatamente restano i concerti, o, come si dice oggi, il rito in presenza».

Avrei potuto trarre vantaggi nel cimentarmi nella tipologia di musica di mio padre, ma non è stata una scelta a tavolino. È stato proprio un disco del chitarrista australiano a far nascere l’attrazione per la chitarra. Avevo più di vent’anni quando mi fu regalato da amici di famiglia. È stato da stimolo a essere autore, compositore, a crearmi un repertorio in quel genere, il fingerpicking

Tommy Emmanuel
Giovanni Baglioni

Fra i brani del nuovo album c’è Roots, molto ritmico, mosso, in cui lei fa un uso percussivo della chitarra. A quali radici fa riferimento?

«È il radicamento in un sistema di valori, a una tradizione culturale. Riparto dal concetto di dare un peso alle tradizioni, alla provenienza. Che non devono essere una palla al piede, ma conoscenza da dove si parte per andare verso altri luoghi. In quel brano resto ancorato alla chitarra, sdraiata sulle ginocchia, utilizzando il tapping».

Il giro del giorno in 80 mondi è invece un intreccio di costruzioni melodiche.

«È un pezzo ambizioso, molto articolato. Che, come indica il titolo, vuole esplorare in un giorno tanti mondi sonori».

È giocoso, “skerzoso”, Skarpeggio.

«Viene dalla crasi tra ska e arpeggio. È in levare, c’è un tapping insistito, anche se non rinuncio alla linea melodica».

Lei ha avuto una formazione classica?

«Ho studiato poco la chitarra classica. I miei studi non sono stati accademici. Prendevo, rubavo, studiando da solo davanti al computer, guardando i video su YouTube con metodo leopardiano, frammento per frammento».

Qual è il senso del brano Il rischio dell’emozione?

«Indica il rischio di esporsi personalmente, di mostrare emozioni. A partire da quella banale e fanciullesca dell’innamoramento. C’è il rischio di rinchiudersi in un bozzolo, di sospendere un po’ tutto. Come ho fatto io con questo disco che era pronto da tempo e, per non rischiare delusioni, per il peso delle aspettative, l’ho lasciato in sospeso, ho ritardato la pubblicazione. Invece, bisogna rischiare».

Giovanni Baglioni

Emisferi è la prova più difficile ed elettrizzante: chitarra e piano con due mani.

«In questo brano ci sono tutti gli intrecci possibili. È ovvio che le parti in cui i due strumenti si rispondono sono state le più facili da gestire, perché suonati separatamente. Ma, in altri momenti, suono con la mano sinistra la chitarra e con la destra il piano. Utilizzo il metodo del tapping che fa vibrare la corda della chitarra con una mano. Il piano mi ha sempre affascinato. Molte volte mi sono seduto a quello sul quale mio padre ha composto canzoni che hanno lasciato un profondo solco nella storia della musica nazionale. Questo brano, comunque, non è un esercizio di stile. Il risultato musicale c’è».

La chitarra, rispetto al piano, mostra di avere più difficoltà a incontrare i gusti del pubblico. Penso al successo che hanno Ludovico Einaudi o Giovanni Allegri. Lei stesso sembra un pianista a sei corde per il modo di toccare le corde.

«Non ricordo, però, prima dei due artisti citati, che i pianisti avessero questo successo. Certo, la musica strumentale richiede più attenzione da parte dell’ascoltatore. Anch’io pensavo che soltanto il piano potesse avere un ruolo da solista. Ma quando sentii Emmanuel per la prima volta fu una sorpresa. Non immaginavo prima di allora che con la chitarra si potesse suonare musica accessibile, non ermetica. Commercialmente è più difficile da collocare».

Tommy Emmanuel è spesso ospite di rassegne jazz. Lei, però, non mi sembra legato a questo genere.

«Anche io ho suonato in contesti jazz, ma credo in effetti che la mia musica non sia jazz, come pure quella di Emmanuel. Nel jazz c’è una maggiore propensione dell’ascoltatore a proposte musicali diverse. Tant’è che in questi contesti mi sono trovato bene, pur non avendo un approccio jazz alla musica. Sono più un compositore. Non canto, non scrivo testi, però le mie composizioni hanno la ricerca melodica e la struttura che sono della canzone: canto, strofa, ritornello. Sono canzoni senza parole».

Un’ultima curiosità. Ho letto sue interviste su giornali cattolici come Avvenire e Famiglia Cristiana e più volte si è esibito in contesti religiosi. Qual è il suo rapporto con la fede?

«Sono un cristiano che crede in questo complesso di valori. Quando ho potuto suonare in contesti religiosi mi ha fatto piacere. D’altronde, come si dice, chi canta prega due volte».

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