– Fresco del Premio Tenco alla carriera, il cantautore porta in Sicilia il suo nuovo spettacolo “Euphonia Suite” mercoledì 13 dicembre a Piazza Armerina e l’indomani a Modica
– «Il concerto è concepito come un flusso continuo che vuole essere circolare. È in continuo divenire. Al pubblico faccio una richiesta strana: chiedo di non applaudire»
– «Sono nato in uno strumento musicale». «Sono stato talvolta bistrattato, come per “Extraterrestre”, ma sono stato un innovatore, ho anticipato i tempi»
– «Giulia non è stata ammazzata dalle canzoni rap o trap. Le canzoni trap contengono anche ciò che ha ucciso Giulia perché sono i ragazzi che le contengono»
«Irrompendo con la sua carica giovanile sulla scena cantautoriale italiana, è stato uno dei protagonisti della stagione degli anni Settanta. Ha inneggiato alla musica ribelle che cominciava a diffondersi e alle radio libere che in quegli anni facevano la loro apparizione. Partendo dalla sua cultura rock non si è fermato lì, ma ha continuato a visitare nuovi linguaggi musicali e, alternandosi tra le sonorità della chitarra elettrica, classica, portoghese e di quelle di un’orchestra d’avanguardia, ha prestato voce al blues, al fado, alla canzone napoletana o alle canzoni di Vladimir Vysotskij. Un autore e cantante mai statico, ma sempre alla ricerca di nuove forme».
È la motivazione del Premio Tenco alla carriera che lo scorso ottobre è stato consegnato a Eugenio Finardi. Riassume in modo sintetico la carriera di una delle voci più importanti della storia musicale nazionale e, nello stesso tempo, lo annuncia nella veste con la quale si presenterà mercoledì 13 dicembre al Teatro Garibaldi di Piazza Armerina e l’indomani, giovedì 14 dicembre, al Teatro Garibaldi di Modica. Ovvero in quella di sperimentatore di generi e linguaggi differenti con il suo nuovo progetto Euphonia Suite che lo vede insieme a Mirko Signorile al pianoforte e Raffaele Casarano al sax viaggiare in flusso continuo nel suo repertorio più conosciuto infrangendo ogni confine musicale, mettendo in connessione blues, rock, classica, jazz, avanguardia.
«Nell’aprire il concerto, io faccio una piccola spiegazione, chiedendo una cosa strana. Spiego che queste saranno le ultime parole che sentiranno, poi sarà solo musica», anticipa il cantautore settantunenne. «Fra le istruzioni c’è quella di non applaudire per non interrompere il flusso sonoro. Eccetto quando non se ne avverta il bisogno pressante, impellente. Perché non sia un applauso di cortesia alla fine di ogni esecuzione, ma sia qualcosa di passionale, caloroso, sentito. E stranamente questa cosa funziona. Nei primi due-tre pezzi, gli spettatori sembrano intimoriti dal mio ammonimento e sorpresi da quello che ascoltano che non è jazz, non è classica, non è blues, ma è qualcosa di morbido, di dolce, di avvolgente. Quando capisce il gioco dei flussi, in quel momento cresce la tensione e, come un argine che si rompe, scoppia un applauso carico di passione e partecipazione».
Euphonia suite è il punto di arrivo della sua ricerca sonora o soltanto un altro passo avanti?
«Continua a evolversi, come Euphonia si evolve di concerto in concerto. I concerti sono diversi dal disco e ogni esibizione è diversa dalla precedente. Euphonia è un flusso continuo che vuole essere circolare. È nata durante il periodo del lockdown come musica per guarire, aveva una funzione rilassante. L’idea della suite è nata dopo aver sentito l’intervista a un neurologo che spiegava che l’ascolto per più di dodici minuti continuati di una pulsazione, di una musica, un ritmo, o anche la recitazione di un mantra, del rosario, hanno la facoltà di placare l’anima ed elevare lo spirito, aiutando a superare i piccoli malesseri. Nel silenzio e nella solitudine della Milano prigioniera del lockdown ho concepito questo concerto per trascendere il malessere».
L’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di Covid è superata, ma sono sopraggiunti altri tipi di malessere.
«Eh, quanti ce ne sono. Faccio tre esempi. Il primo è Soweto, che è il secondo pezzo della suite. L’ho scritta nel 1986 e parlava della prima guerra del Golfo, quella tra Iran e Iraq, che forse oggi i ragazzi non ricorderanno. In quella canzone cantavo: “Amo gli afghani che lottano una guerra già perduta”, quando ancora erano invasi dai sovietici. Quelle parole oggi le ho trasformate e canto: “Amo le afghane che lottano una guerra già perduta”. È tutto talmente attuale, talmente circolare. L’eterna ripetizione ciclica che non porta, come fa una suite musicale, alla elevazione dello spirito, ma provoca la malinconia, la tristezza, la plumbea mancanza di speranza, facendo salire la tensione, la rabbia, i prezzi. Assurdo. Inutile. Il secondo esempio è Mezzaluna, scritta quando scoppiò la seconda guerra del Golfo, quella con l’invasione del Kuwait, nel 1991: anche questa attualissima, parla dell’angoscia di questo conflitto lontano che ti irrompe nella vita come un terremoto. Il terzo è Holy Land, che è un blues, un canto dell’anima, parla come un antico blues di cento anni fa del conflitto in Terra Santa».
In questa nuova tranche di concerti, farà capolino anche una nuova composizione, Patrizia.
«Per adesso è nei bis. Bisogna considera Euphonia come un flusso continuamente in crescita, come una entità biologica in continua evoluzione: alcune cellule si perdono, altre nascono. E dove per cellule intendo misure musicali, un inciso, un diverso modo di cantare o suonare una strofa, o negli interludi, nei legami fra una canzone e l’altra con inserimenti di citazioni, arie. Il concerto è in continuo divenire. I concerti del Trio esprimono al meglio la mirabile arte della improvvisazione totale e della composizione estemporanea».
Ha ascoltato l’ultimo album di Neil Young, Before and After? È simile a Euphonia Suite: da tredici pezzi del suo passato suonati come una suite, senza interruzioni, con la chitarra acustica.
«È incredibile! È bello essere un precursore anche di Neil Young», ride. «Io ho anche registrato il primo “unplugged” italiano. La scelta di abbandonare l’industria e di diventare un produttore indipendente, anche se solo del mio materiale e per quel che posso, ha un doppio aspetto: da una parte è una rinuncia a livello economico, esci fuori da meccanismi che ti riservano i passaggi in televisione, dall’altra è la conquista di una libertà musicale che pochi altri hanno e che ti consente di sperimentare a tutto tondo. Il Tenco ha premiato una carriera, la mia, bistrattata perché quando facevo un successo subito dopo cambiavo registro. Extraterrestre, che oggi è una delle mie canzoni più popolari, è stata il mio primo insuccesso, fu criticata, e io fui accusato di aver tradito il movimento. Invece, avevo anticipato il riflusso che stava arrivando, presagivo la fine del movimento, gli anni Ottanta. L’ambiente era quello degli Area, di Battiato, del Lucio Dalla di Come è profondo il mare, di John Cage. Un momento creativo straordinario per l’Italia tutta. Il cantautorato, ogni città aveva qualcosa da dire. Napoli e Milano erano molto collegate. La rilevanza era importante e collettiva, adesso la rilevanza è tribale».
In seguito alla tragedia di Giulia Cecchettin, molti hanno puntato l’indice contro quella musica giovanile – rap e trap – con testi omofobi che incitano alla violenza sulle donne.
«La nostra generazione, da Prevert a Dylan, Cohen, De André fino a noi ha cantato il buon senso e la verità. Anche i rapper o trapper cantano la loro realtà e verità con una musica che ha un impatto sonico molto forte, dal beat coinvolgente e parole fitte in gergo. Molti di questi giovani li conosco, vivono nel quartiere di San Siro, dove abito io e molti altri artisti. Si dividono in baby gang e alcuni di recente sono stati anche arrestati. Ma Giulia non è stata ammazzata dalle canzoni rap o trap. Le canzoni trap contengono anche ciò che ha ucciso Giulia perché sono i ragazzi che le contengono. Io credo che la grande discussione di questo momento sia quale sia un nuovo modello di mascolinità non tossica. Siamo noi che dobbiamo cambiare, però poi se non siamo gli arieti che si scornano che siamo?».
Torniamo ai premi. Lei quest’anno, oltre al Tenco alla carriera, ha ricevuto anche il Premio di Poesia Città di Legnano – Giuseppe Tirinnanzi, generalmente dedicato alla poesia italiana e a quella scritta nei dialetti di area lombarda.
«È stato una sorpresa per me e mi ha quasi commosso. Sono stato il primo cantautore a riceverlo. Non ho mai osato pensare a me stesso come poeta, ma come musicista. Sono nato musicista, mia madre, che era americana, era musicista. Io sono nato dentro uno strumento musicale e non ho mai pensato di essere altro… Ma l’attestazione più bella l’ho ricevuta da mia figlia che mi ha detto che le sue compagne di università hanno preparato la tesi ascoltando la mia musica perché la ritengono motivazionale. Alla mia età ci si commuove».
Quale musica? Quella di Musica ribelle o di Euphonia?
«È sempre la stessa, è una evoluzione. Ripeto sono nato in uno strumento musicale. Leggenda vuole addirittura come una nota. La nota alta della Regina della notte (Mozart, nda). Mia madre mi raccontò: “Mi hanno chiesto di spingere sul diaframma e di cercare quella nota e sei uscito tu”».