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Capossela: Sponz, dalla coltura alla cultura

Al via oggi la decima edizione del festival che si volge nell’Alta Irpinia, curato dall’autore di “Canzoni della cupa”. Accanto ai temi dello spopolamento dei piccoli borghi e dell’emergenza climatica, filo conduttore è il rapporto tra «cosa consumiamo e cosa lasciamo». Il logo “coultura” ideato dall’architetto catanese Jacopo Leone che ricostruisce tutta la fase creativa: «Qualche giorno fa la conferma d’averci visto giusto anche linguisticamente: al mercato delle pulci di Parigi ho trovato una scritta antica dove la “o” e la “u” sono sovrapposte alla stessa maniera»

Al contrario di Jovanotti che va in giro per l’Italia devastando ambienti marini, Vinicio Capossela va alla riscoperta di luoghi del cuore e dello straordinario patrimonio culturale diffuso nei piccoli centri. Il suo “Sponz Fest”, giunto alla decima edizione, quest’anno si concentra sul rapporto tra coltura e cultura della terra. 

«Sponz Coultura vuole ragionare sull’idea del coltivare: coltivare la terra, ma anche le idee, i pensieri, il senso civico», introduce il direttore artistico Capossela. «Di anno in anno cerchiamo di direzionare l’arte dell’incontro in qualche direzione tematica. Per questo 2022 ci siamo posti il tema del coltivare, nella doppia accezione di cultura e di coltura. Da cui la “O” che si incontra con la “U”, come ha declinato graficamente da par suo Jacopo Leone, diventando una specie di pittogramma cornuto che è il simbolo dell’edizione. Ragionare su cultura e coltura è ragionare su di cosa siamo fatti, su cosa mangiamo e su cosa coltiviamo. Sul rapporto con la terra, con le risorse della terra e anche con le nostre. Su cosa consumiamo e su cosa lasciamo. Su cosa coltiviamo e cosa corrompiamo».

Vinicio Capossela (foto Valerio Spada)

L’Italia è infatti un Paese di Paesi emersi dal mare della coltura della terra. L’agricoltura intensiva, il consumo del suolo, l’emergenza climatica e lo spopolamento delle aree interne stanno però cambiando profondamente il paesaggio naturale e umano del mondo in cui viviamo. «Non ho un osservatorio privilegiato, abbiamo provato con lo Sponz ad aprire una riflessione sulle possibilità delle aree interne, a partire dall’emergenza climatica. È un problema serio su cui si fa una narrazione semplificata. I paesi hanno bisogno innanzitutto di servizi, dall’assistenza sanitaria all’istruzione fino ai trasporti o alla connessione a Internet. C’è bisogno di interventi strutturali a livello nazionale. Oggi c’è, per fortuna, una coscienza diversa che portare a un’inversione di marcia. Penso anche all’agricoltura, che è una grande risorsa di queste terre. Certo, resta il problema degli investimenti che finiscono sempre con l’essere destinati ai centri urbani».

Partendo da queste e altre tematiche affini – lotta allo spreco alimentare, salvaguardia della biodiversità, forestazione e deforestazione – Sponz Coultura propone una riflessione sul nostro stile di vita e sulla sua sostenibilità, lavorando in sinergia con chi il territorio lo vive e lo tutela ogni giorno.

«Il verbo “sponzare” viene dall’azione della spugna che, una volta inzuppata, ammorbidisce e rigenera», riprende Capossela. «Così è il corpo di gruppo che da “sponzato” perde rigidità, forma e spigoli, e assorbendo dilata e accoglie e rimette in circolo. Sponz Fest più che un festival è uno spirito, un modo di esperire forme di comunità mobile. Questo spirito cerchiamo di sollecitarlo a mezzo della musica, ma anche del cibo, del bere, del ballo e soprattutto dell’incontro in intersezione con il paesaggio naturale e di natura umana».

Calitri (foto Giuseppe Di Maio)

Lo Sponz Fest si svolgerà dal 21 al 27 agosto in Alta Irpinia, questa volta nei comuni di Sant’Andrea di Conza, Andretta e Calitri, e coinvolgerà musicisti, artisti e personalità del mondo della cultura che attraverso concerti, laboratori, incontri e percorsi sonori e tematici tra i sentieri esploreranno il tema di questa edizione per culminare sabato 27 agosto con il concerto Tutti in una notte. «Sarà un viaggio nello spirito Sponz, dalle canzoni della cupa alla frontiera», spiega Capossela. «Al mio fianco Alessandro “Asso” Stefana, Andrea La Macchia, Giovannangelo de Gennaro, Peppe Leone, l’uomo tamburo, con il suo Bar Conchiglia, diventato inno del festival, Mikey Kenney, Sol Ruiz e Victor Herrero. E ancora Davide Ambrosio e il suo progetto legato al folclore di terra, la voce straziata e toccata dalla grazia di Edda, l’anima raffinata e artisticamente anarchica di Giovanni Truppi, lo sperimentatore della voce John De Leo, la canzone militante di Mara Redeghieri, Micah P. Hinson e la voce e la chitarra di Pietro Brunello. Ma mi piace sottolineare anche il ritorno di Costantino Cinaski con i suoi poeti rock, la frontiera vera ed evocata con Bobby Solo, l’omaggio alle musiche dell’assenza, dal rebetiko al tango, con Dimitris Mystakidis, la saudade della voce di Silvania Dos Santos accompagnata dalla chitarra di Giancarlo Bianchetti, la raucedine nortegna di Sol Ruiz». 

Il manifesto della edizione 2022 con il logo ideato da Jacopo Leone

«Così è nato il pittogramma cornuto che fa da logo»

by Jacopo Leone

La richiesta iniziale prevedeva l’uso di altre parole chiave, indicazione che, come al solito, non ho preso in considerazione. Lo dico per ribadire cosa sia per me la grafica, parte integrante del processo creativo generale e non unicamente veste dello stesso, e men che meno sfoggio creativo atto a soddisfare il cliente. Parte integrante del discorso è già essa stessa discorso, anticipandolo per di più. Se una cosa graficamente non funziona vuol dire che il progetto non funziona, o meglio, non è maturo. L’immagine svela i punti deboli, chiarisce, in qualche maniera. Il logo non può essere un indice esaustivo di tutte le tematiche affrontate nel festival, e nemmeno si può ridurre a un riassunto. Suo compito è evocare il massimo con il minimo di elementi possibili. Quando ricevetti il testo dove si leggevano le due parole (coltura e cultura) in sequenza, distinte e separate, in qualche maniera mi veniva suggerito l’errore, e l’idea conseguente: venivano trattati come separati, anche se in relazione, e invece sono concetti speculari, sovrapposti; intrecciati in un tutt’uno, se li si vuole affrontare con il giusto piglio. Un concetto unico, dovevo renderli così. Insomma, già nel logo si entrava in partita, suggerendo a mia volta con gentilezza un’interpretazione che immagino, e spero, verrà sviscerata nel corso del festival. La mia è una grafica invadente, lo so, che ruba la palla ma solo per passarla lì dove serve al cannoniere di turno.

Dicevamo. Invece della doppia parola ripetuta con la vocale differente (Coltura/Cultura), così come mi era stato chiesto, ho duplicato all’interno di una stessa parola le due vocali in questione. Ecco il primo passaggio: Coultura, tutta d’un fiato. Il gioco era fatto ma visivamente non ancora esaustivo. Ecco perché ho sovrapposto, e leggermente slittato in verticale la “o” e la “u” per vedere cosa succedeva. Così facendo si rendevano leggibili e nello stesso tempo se ne ricavava una moderna maschera tribale, a metà strada tra un emoticon stilizzato e un pittogramma cornuto.

Qualche giorno fa la conferma d’averci visto giusto anche linguisticamente: al mercato delle pulci di Parigi ho trovato una scritta antica dove la “o” e la “u” sono sovrapposte alla stessa maniera, rendendomi impermeabile anche alle critiche degli accademici.

Visivamente da un certo punto di vista sono i solchi dovuti all’arare la terra, e parimenti la cartografia degli appezzamenti di terreno con confini che accomunano in un unico disegno. Particelle in orbita su se stesse nel volo irregolare di chi non se ne vuole andare.

Di tutta questa tiritera, purtroppo, si è utilizzata solo la semina, l’incipit di una declinazione a venire che nell’allontanarsi dall’origine intende salvaguardarne lo spirito. Come per chi lascia la Sicilia.

Dario Brunori (a destra) intervista Jacopo Leone, architetto, grafico e pittore d’ombre (Brunori Sa “Jacopo Leone. Fantasmi di seppia”, Rai3)

Nell’idea originaria quel tracciato insolente come un diavoletto era, a ben guardare, il generatore di un alfabeto di segni incomprensibili, eppure ricchi di messaggi da interpretare, proprio come i sogni. Tasselli di un linguaggio silenzioso a corredo di ogni appuntamento in calendario. Emblemi ricavati da piccoli dettagli che isolati dalla visione d’insieme costellano l’immaginario dei dubbi e delle scelte raffigurate nei bivi che due linee producono quando si incrociano come idee.

Quanto al colore si è passati dal giallo oro iniziale, del grano (tesoro che la terra custodisce in germe), all’ocra, fino alla tinta più scura di un rossoarancionemattone della terra appena rivoltata, zollata di fresco. Il colore incandescente che cova nella potenzialità ad accomunare ulteriormente coltura e cultura nella coultura, neologismo latineggiante d’origine dialettale.

Per concludere, tra le pieghe di un segno astratto, un messaggio subliminale: così come in agricoltura è necessario l’avvicendamento colturale per mantenere vivo e fertile il campo d’azione, alla stessa maniera – a mio parere – bisogna garantire la rotazione delle culture, ricordandosi di variare gli interessi. Una specializzazione a rotazione, a zollare differenti campi del sapere con l’aratro impeccabile della curiosità. Anche a costo di uscire dal seminato.

Con questo logo ho voluto dire la mia sull’argomento senza proferire parola. Anche se i loghi non mi sono mai piaciuti, li ho sempre guardati con sospetto e questo è l’ultimo che progetto. L’identità è quello che fai, nulla di più.

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