– L’attore è il mattatore nel film di Brady Corbet, in arrivo questa settimana nelle sale italiane. Potrebbe bissare la vittoria con “Il pianista”. «Mi ci sono voluti due decenni per trovare qualcosa di questo calibro»
– È una saga travolgente di uomini audaci e delle loro visioni altrettanto smisurate. Un film completo, nessun aspetto della produzione è stato trascurato. Ci sono sfumature di Fellini, Bergman, Bertolucci e un riferimento al Coppola de “Il padrino”
Adrien Brody aveva solo 29 anni quando nel 2003 vinse l’Oscar come miglior attore per Il pianista, l’inquietante film di Roman Polanski ambientato nel ghetto di Varsavia. Fu il più giovane a riceverlo, un record che regge ancora. Lo sforzo immersivo di prepararsi per il ruolo, trasferirsi dal suo appartamento di New York, evitare gli amici e morire di fame per capire la perdita e l’isolamento, lo lasciarono depresso ed esausto. Non lavorò per un anno dopo quel film.
Il ruolo successivo che interpretò fu quello di un ragazzo omicida con disabilità nello sviluppo in The Village di M. Night Shyamalan, un racconto gotico di mostri nei boschi. Dfficilmente materiale da riportarlo in primo piano. Brody aveva cominciato a lavorare con registi del calibro di Spike Lee, Ken Loach, Barry Levinson, Steven Soderbergh e Terrence Malick, e avrebbe voluto più o meno la stessa cosa: ruoli interessanti, collaborazioni con grandi artisti. «Non cercavo solo un personaggio eroico. Volevo avere un percorso creativo. Ma questo è il problema». È una scelta che può portare a uno scivolone dopo un picco iniziale.

Ad oggi, Brody ha girato quasi sessanta film interpretando un universo di personaggi diversi, dal punk rocker al ventriloquo, al torero, al generale romano; ha interpretato Arthur Miller, Houdini e un meraviglioso Salvador Dalí in Midnight in Paris di Woody Allen. Ha sfidato genere e stereotipi, recitando in grandi film d’azione come il reboot di Peter Jackson King Kong and the Predators; ha fatto fantascienza, thriller e horror; ed è diventato un componente abituale della troupe cinematografica di Wes Anderson. Alcuni dei suoi film sono stati acclamati dalla critica; molti sono stati un fiasco, ma le sue interpretazioni hanno raccolto sempre commenti positivi.
Lo scorso ottobre a Londra recitava a teatro in The Fear of 13, un’opera di Lindsey Ferrentino che racconta la storia di Nick Yarris, l’uomo che trascorse ventidue anni nel braccio della morte in Pennsylvania prima di essere scagionato attraverso le prove del DNA. Era la prima volta che Brody faceva teatro da quando era adolescente; le recensioni erano entusiastiche e si stava godendo la libertà di reinterpretare il suo spettacolo ogni sera. L’opera è stata messa in scena al Donmar Warehouse, un luogo notoriamente intimo per produzioni nuove e sperimentali, solo 250 posti, e aveva una durata di un’ora e 45 minuti senza intervallo. Brody teneva il palco con lo stesso magnetismo con cui tiene lo schermo, interpretando abilmente le diverse sfaccettature di Yarris: il duro di strada che fa battute, il detenuto filosofico, l’uomo innamorato, il bambino abusato. Lo stesso Yarris veniva spesso a vedere lo spettacolo e piangeva per la catarsi.

Adrien Brody è nato nel Queens, figlio unico di un insegnante di storia di una scuola pubblica che ha imparato da solo a dipingere come un vecchio maestro, e di una nota fotografa, i cui scatti in bianco e nero sono apparsi su The Village Voice e The New Yorker, e sono nella collezione permanente del MoMA. È cresciuto con una discendenza mista cattolico-ebraica mitteleuropea e in un ambiente intellettuale; da bambino amava la magia, si esibiva come l’Amazing Adrien, si appassionava seriamente all’hip-hop e frequentava la LaGuardia High School of Music & Art and Performing Arts, facendo domanda per studiare belle arti e poi passando a teatro.
Brody attribuisce ai suoi genitori il merito di avergli trasmesso i valori che hanno sostenuto le sue scelte artistiche. «Essere cresciuto come figlio di una fotografa, a New York City, vedere tutti questi aspetti complessi e belli della città, stare con scrittori meravigliosi e circondarsi di tutte queste grandi persone creative è stato formativo», ha detto. «Gran parte della mia capacità di essere tenace e di credere in me stesso deriva dal fatto che i miei genitori rispettavano la mia unicità e le mie aspirazioni creative come qualcosa di valido».
Quest’anno Brody, che ora ha 51 anni, si ritrova di nuovo al centro dell’attenzione dei premi Oscar per la sua interpretazione di László Tóth, un immaginario architetto ebreo ungherese che cerca di ricostruire la sua vita in America dopo la seconda guerra mondiale, nel monumentale capolavoro The Brutalist di Brady Corbet, in arrivo questa settimana nelle sale italiane. È un film molto diverso da Il pianista, ma per certi versi, con la sua ambientazione postbellica e i temi dell’arte e della perdita, sembra un sequel involontario e per Brody, forse, un’espiazione. «Mi ci sono voluti due decenni per trovare qualcosa di questo calibro, e per questo sono grato».
Tóth è un architetto ebreo-ungherico che, nell’avvincinte sequenza di apertura del film, arriva a Ellis Island su un carico di rifugiati del dopoguerra nel 1947. È interessante notare che New York non è la sua destinazione, poiché subito sale su un autobus per Filadelfia, casa di un cugino (Alessandro Nivola) e della sua gentile moglie (Emma Laird) che gestiscono un negozio di mobili. Anche questa è una tappa temporanea, poiché Tóth alla fine si trova nella periferia rurale di Doylestown, in Pennsylvania, sede del ricco benefattore Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce).
Tóth è il nucleo di questo film, con Adrien Brody che veste perfettamente i suoi panni. È un outsider ebreo che si sforza di ritagliarsi uno spazio nell’America degli anni ’50. È, allo stesso tempo, un fascio di contraddizioni:un genio che fa scelte stupide, un sopravvissuto che si fa del male, un artista con una visione chiara e senza compromessi. Si trascorrono quasi tutte le tre ore e mezza del film con un superbo Brody sullo schermo. Anche Pearce è molto bravo come Van Buren, l’industriale dalla mentalità conservatrice.
The Brutalist è uno di quei film completi, nel senso che nessun aspetto della produzione è stato trascurato. La colonna sonora è fenomenale, che si tratti del tema ricorrente inquietante di Daniel Blumberg o delle eccellenti selezioni di canzoni. La cinematografia, su VistaVision da 70 mm, è impressionante e fa pieno uso di un formato ultra widescreen che non veniva utilizzato a Hollywood da cinquant’anni. Il direttore della fotografia Lol Crawely ha un occhio per le immagini sorprendenti, che si tratti del lento gocciolamento d’acqua lungo la faccia di una lastra di marmo non tagliata, o della inquieta immobilità di una camera sotterranea allagata.
Ci sono sfumature di Fellini, Bergman e soprattutto Bertolucci (il suo capolavoro Il conformista in particolare) in The Brutalist. E c’è una battuta che sembra presa da Coppola: «Credo nell’America». Che sono le prime parole che si sentono nel Padrino, pronunciate da Amerigo Bonasera, pochi istanti prima di chiedere a Don Corleone di organizzare l’omicidio degli uomini che hanno aggredito la figlia. È una nota che suggerisce tutto ciò che segue: la brutalità, i tradimenti, l’eccesso. È l’America di cui parla Bonasera. È un pensiero che avrebbe potuto facilmente trovare la sua strada in The Brutalist, con il suo cast di rifugiati, visionari, tossicodipendenti, nouveaux riches e altri che si aggradano alla (falsa) promessa dell’America. Questi personaggi possono credere nell’America, ma è un’America di violenza e ipocrisia, ed è un’America che non crede necessariamente in loro. In The Brutalist, questo si rivela particolarmente vero per i personaggi ebrei, che sono fuggiti dall’antisemitismo nella sua manifestazione più estrema, solo per arrivare in un Paese in cui sentimenti simili ribollono sotto la superficie.