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Augusto Daolio, spirito vagabondo

Il 7 ottobre, a trent’anni dalla sua prematura scomparsa, una mostra a Reggio Emilia racconta il cantante dei Nomadi, l’“Eric Burdon della Bassa”, mettendo in rilievo la poliedricità dell’artista, che fu cantante, pittore, poeta e divulgatore

«Non so se siano volati più veloci i trent’anni da Nomadi assieme con Augusto o i trenta senza di lui. A chiunque auguro di avere un compagno di band come lui, uno che faccia gruppo, che non pensi mai a fare il solista pur avendone doti e possibilità. Con lui ognuno aveva un compito non scritto e lo rispettava. E la cosa più bella dopo la sua morte è che tuttora ragazzini di 18- 20 anni vengano a chiedermi di lui, si vede che ha seminato bene». Così Beppe Carletti, l’unico superstite della band dei Nomadi, ricorda Augusto Daolio, il cantante morto a soli 45 anni il 7 ottobre 1992. 

Augusto Daolio pittore

Sono passati trent’anni, ma quando si parla dei Nomadi, il pensiero va immediatamente al suo frontman barbuto, voce e spirito vagabondo del gruppo di Novellara. Adesso, lo Spazio Gerra di Reggio Emilia lo racconterà con una mostra che mette in rilievo la poliedricità dell’artista, che fu cantante, pittore, poeta e divulgatore. Verranno resi pubblici disegni, dipinti, schizzi, taccuini di viaggio, fotografie, manoscritti e video, la maggior parte dei quali messi a disposizione dagli archivi personali di Rosanna Fantuzzi, compagna di Daolio. «Ho sentito la necessità di aprire alcuni spazi chiusi da sempre, contenevano quel privato solo “nostro” che però ora era doveroso condividere con le persone, le stesse alle quali Augusto aveva offerto una grande parte di sé, con passione e affetto», spiega la vedova.

Qualcuno lo chiamò l’“Eric Burdon della Bassa”, accomunando Augusto Daolio al cantante blues di The House of Risin’ Sun. Ma l’emiliano era soprattutto un artista che cercava nelle canzoni l’autenticità. Le sue canzoni erano influenzate dal beat inglese e dal folk americano, ma radicate saldamente nella provincia italiana, disposte a superare con lo sguardo i confini nazionali: canzoni che sapevano essere attente ai movimenti sociali ma anche alle passioni e ai sentimenti. Inseguiva Francesco Guccini nelle sue canzoni di protesta e di dolore, scivolava con la voce incrinandola sulle note più scabre, attingendo a un’intonazione che non era mai uguale a se stessa. E per un miracolo raro, è restato “forever young”, rendendo immortale anche il gruppo con il quale esordì nel 1963. Il nome scelto, Nomadi, forse per caso ma forse anche per destino.

Augusto Daolio con la compagna Rosanna Fantuzzi

Da allora i Nomadi hanno pubblicato oltre 50 fra dischi in studio, live e raccolte per un totale di oltre 15 milioni di copie vendute, in un’attività scandita da una media di oltre 100 concerti l’anno che tocca capillarmente ogni località d’Italia. Nel 1965 il loro primo 45 giri dal titoloDonna la prima donna, un anno dopo inizia la collaborazione con l’allora sconosciuto Francesco Guccini. Da questo sodalizio nascono canzoni come Noi non ci saremo e Dio è morto, diventate poi veri e propri inni per milioni di giovani di generazioni diverse. Nel 1972 con Io Vagabondo, brano simbolo del sentimento “nomade”, ritrovano anche le vette delle classifiche.

Nel cimitero comunale di Novellara, dove è sepolto Augusto Daolio, la tomba è diventata una sorta di mausoleo pop-art grazie all’incredibile devozione dei fans che continuano ad arrivare da tutta Italia e che lasciano un segno, un pensiero, un oggettino, qualsiasi cosa pur di testimoniare in modo tangibile la devozione. C’è di tutto: puffi, cartine, accendini, anelli, fiori, dolcetti, pensierini. Ci sono due aironi in metallo per ricordare l’impegno di Augusto in favore degli uccelli che lì vicino avevano deciso di stabilirsi (e oggi grazie a lui vivono indisturbati in una bellissima riserva ecologica), un pallone, disegni, fotografie, un bonsai. Su un pezzo di legno “scolpito dalle acque del Po” il Fan Club di Carmagnola ha inciso la frase “Il fiume riporta quello che trova”.

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