– L’artista pugliese in gara a Sanremo con “Anema e core”: «Il titolo richiama un’espressione tipica napoletana, oltre ad essere un omaggio a uno degli artisti che più mi hanno ispirato, Pino Daniele». A lui ispirata anche l’esibizione sul palco dell’Ariston
– Gli inizi nel jazz “benedetta” da Quincy Jones. Ora mette in insieme funk, etnico, elettronica e dialetto: «Lo cantava la Magnani, lo scriveva Pasolini». «Il brano ha questi ritmi che fanno parte del folk del Paese, ma anche la salsa e tutta la musica latina»
– Un ritorno nella Città dei Fiori dopo quindici anni da uno sfortunato debutto e sull’onda del successo di “‘U Baccalà”. «Dopo quel Festival ho comprato una loop station e scelto di essere vera e non solo brava». «Perdere mia madre mi ha reso più forte»
Anema e core perché «uso sempre quelle due parole per dire che la vita voglio mangiarla, non perdere tempo, fare sempre e solo cose belle». Serena Brancale allontana subito i confronti con Murolo e la tradizione classica napoletana. La sua canzone d’altronde segue strade diverse. Forse tante: un po’ dance, un po’ etnico, un po’ elettronico, un po’ jazz. C’è chi ha udito uno stomp che ricorda La noia di Angelina mango, chi ha intravisto Pino Daniele, altri uno stile un po’ confusionario, altri ancora una potenziale canzone-tormentone. «Vi porto nelle stradine di alcune città del sud, in Puglia ma anche in alcuni posti latini, in Venezuela. C’è molto di esotico in questo brano che ha un sapore made in Sud: ha questi ritmi che fanno parte del folk del Paese, ma anche la salsa e tutta la musica latina», sottolinea lei.
Una bella impepata di cozze, per restare in tema gastronomico con i suoi successi Ù Baccalà, canzone che, da quando è stata condivisa sui social, ha registrato un boom di visualizzazioni, e Stu cafè. «È un brano che celebra l’essenza più autentica dell’amore, un sentimento puro che si esprime senza riserve», spiega Serena. «In un mondo dove spesso i sentimenti vengono filtrati, nascosti o mascherati per paura di essere giudicati, questo brano ci ricorda che amare davvero significa mostrarsi per ciò che si è, senza vergogna né timore, mettersi a nudo donandosi completamente a un’altra persona. Il titolo richiama un’espressione tipica napoletana, oltre ad essere un omaggio a uno degli artisti che più mi hanno ispirato, Pino Daniele». Che Serena ha scelto di celebrare nel suo 45 giri anche con la cover di Alleria del cantautore napoletano scomparso dieci anni fa. E a Pino è ispirata anche l’esibizione sul palco dell’Ariston: «Ho pensato a tutto. C’è qualcosa nella performance che avrà a che fare con Pino ma è una sorpresa. Non è soltanto un’esecuzione di una canzone, per me è un momento di teatro-musica».

Pugliese, e in dialetto canta – «fa parte della nostra cultura. È così bello: lo cantava la Magnani, lo scriveva Pasolini», ripete -, inizi nel jazz che le hanno meritato l’endorsement di Quincy Jones – «gli era piaciuto il mio disco Je so accussì, mi ha mandato un video e quando ho sentito quel: “SRENA!!! Welcome to our family”, mi sono sentita male», racconta – la trentacinquenne barese preferisce divertirsi con un po’ di sana “cazzimma”: «Con la musica non seguo le mode: ritmo e bel canto sono le dimensioni musicali in cui sono cresciuta», tiene a sottolineare.
Serena Brancale a Sanremo c’era stata già nel 2015, nella sezione “Nuove proposte”. «Dieci anni fa ero una ragazzina che cantava un brano difficilissimo come Galleggiare. Ero sola. Non ero strutturata, poco allenata allo stress di quella manifestazione. Pensavo che essere una jazzista pura fosse la mia strada. Ma così escludevo troppe cose che mi appartengono: il dialetto barese, il ritmo appunto. Dopo il primo Sanremo ho cercato di mantenere l’incoscienza nel giocare con la musica, ma con l’obiettivo di creare qualcosa di significativo per il momento storico che viviamo. Ho fatto più ricerca ascoltando quello che c’era intorno, ho comprato una loop station e scelto di essere vera e non solo brava». Tentò senza fortuna anche di bussare alla porta di X-Factor , «e lì ho capito che la visibilità arriva da sola quando è il momento giusto. Ma prima e dopo deve esserci lo studio».
Fino a Ù Baccalà, una canzone nata divertendosi «con un po’ di sana “cazzimma”». Mescola termini colloquiali e espressioni tipiche del dialetto barese, raccontando scene tipiche della vita familiare e quotidiana che arricchiscono il ritmo ballabile di un tocco del tutto genuino, un po’ come è la stessa interprete. Oltre ad essere una hit, Ù Baccalà si presenta anche come uno scioglilingua, quasi un rompicapo linguistico da scoprire. Il successo del brano non conosce confini e Serena Brancale esprime la sua immensa gioia nel vedere i bambini ballare sulle note del suo brano, sottolineando che se arriva ai più piccoli, è indice di assicurata popolarità. «E poi l’uso della parolaccia, che è un classico, e lo stesso ritmo baile funk, che fa muovere il culo. È un sound da TikTok, io l’ho scoperto lì».
Con La Zia e Stu Cafè, ha continuato il suo percorso musicale che unisce influenze soul e R&B al dialetto barese e che l’ha portata in una tournée di oltre cinquanta date sold out, in suggestive venue come la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone di Roma e il Teatro Petruzzelli di Bari. E dire che da ragazza non voleva suonare. «Mia madre, Maria. È morta quattro anni fa, un intervento sbagliato. Era venezuelana e insegnava canto. Aveva aperto una scuola di musica in provincia di Bari. Sono cresciuta lì, tra i ragazzi che provavano Jesus Christ Superstar. Da bambina mi ha imposto lo studio del violino. Non sa i pianti…». Lei, invece, amava il ritmo, la batteria. «Mio padre mi ha trasmesso la passione per il funk. E mio nonno ascoltava Frank Sinatra tutti i giorni. Guardava la boxe in tv e ascoltava Sinatra». La morte della madre ha rappresentato un lutto che «mi ha fortificato tantissimo», racconta l’artista che aggiunge: «Strano da dire ma da quel momento in poi sono diventata molto più a fuoco, più responsabile su tutto».