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BRUCE SPRINGSTEEN previde l’era Trump

– Riflessioni sul “concerto politico” del Boss del rock, che nelle sue canzoni canta le vittime della deindustrializzazione che hanno spinto il tycoon alla Casa Bianca. La sua autobiografia «dovrebbe essere letta, se fossero intelligenti, dai politici che cercano di capire davvero sapore e atmosfera della disaffezione»

Da cinquant’anni Bruce Springsteen canta le vittime della deindustrializzazione che attanaglia gli Usa e che ha spinto Donald Trump alla Casa Bianca. Trovai un lavoro da manovale/ Per la Johnstown Company/ Ma non c’era più molto lavoro a causa della crisi (The River); “Il ragazzino e sua madre tremano fuori dalla vetrina fatiscente di un negozio di musica” (The Wish); “Chiusero la fabbrica di automobili a Mahwah quel mese/ Prese una pistola e sparò al cassiere del turno di notte” (Johnny 99).

«Ricordo le umiliazioni subite da mio padre quando non riusciva a trovare lavoro, costretto a dipendere da mia madre. Ricordo la sua rabbia, la sua autostima in frantumi. È il mio imprinting. Per questo capisco la destra: l’economia che passa dal manifatturiero ai servizi si lascia indietro tanta gente che sa solo lavorare con le mani. Non possiamo ignorarli, sono nostri fratelli». Bruce Springsteen diceva queste parole al Corriere della Sera una decina di anni fa, in una lunga intervista nella quale elogiava Obama ma ricordava come i democratici non dovevano — non potevano — dimenticare l’America che vede da decenni posti di lavoro del settore manifatturiero volare via, per sempre, verso l’Asia. Lui lo dice — lo canta — da cinquant’anni, lungimiranza che ha fatto scrivere al Financial Times un editoriale dedicato al musicista «la cui musa è la deindustrializzazione con le sue vittime», quelle che alla fine spingono in alto Donald Trump e hanno decretato l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue.

Ma perché a Sunderland, dove la Brexit ha riscosso una maggioranza record, perché nella provincia italiana, dove si concentrano i voti per il centrodestra, non c’è mai stato uno Springsteen? Perché quello di Springsteen è un fenomeno profondamente americano, capace di trascendere le etichette di partito: l’autobiografia di Springsteen, Born to Run, «dovrebbe essere letta, se fossero intelligenti, dai politici che cercano di capire davvero sapore e atmosfera della disaffezione della working class, non soltanto le nude statistiche sul numero dei disoccupati», scriveva Janan Ganesh sul Financial Times. Chissà se Elly Schlein, la segretaria del PD presente l’altra sera al concerto di San Siro, l’ha letta. In Italia, come nel Regno Unito, non c’è musica né regista (e neppure politico) che riescano a parlare all’anima profonda del Paese.

Springsteen ha sempre rifiutato un ruolo politico, dicendo di non capire di ideologia, ma di essere semplicemente un musicista, e questo lo ha reso ancora più forte: Born in the Usa, fraintesa da Ronald Reagan come un inno patriottico, è in realtà l’atto d’accusa che racconta la storia d’un reduce del Vietnam «preso a calci fin dalla nascita» che, tornato a casa, trova lavoro in una raffineria.

Solo Springsteen poteva cantare — senza far infuriare l’America della working class che rispetta le forze dell’ordine — la morte di un immigrato africano disarmato crivellato dai poliziotti, quindici anni prima della nascita di Black Lives Matter. Bruce il profeta che in 41 Shots canta «Quarantun colpi squarciano la notte… quarantun colpi per attraversare le acque del fiume insanguinato e arrivare sull’altra riva… puoi essere ucciso solo perché stai nella tua pelle americana».

Solo Springsteen poteva raccontare il trauma dell’11 settembre in The Rising scritto perché una mattina, poco dopo la strage, un automobilista fermo al semaforo accanto a lui nella sua Asbury Park abbassò il finestrino e gli disse: «Abbiamo bisogno di te». E lui cominciò a scrivere «con umiltà e rispetto senza fine» lettere alle famiglie delle vittime delle quali, aveva letto sul New York Times, era il cantante preferito.

Bruce Springsteen, in un’era sempre meno autentica e sempre più mediatizzata, ha sempre raccontato, con semplicità assoluta, la sua vita, il suo passaggio dall’adolescenza alla maturità, da rocker a padre di famiglia. Come fece in The Wish, che si apre con l’immagine di Bruce bambino davanti a un negozio di strumenti musicali («Una strada vecchia e sporca, con la neve che si scioglie nella pioggia / Il ragazzino e sua madre tremano fuori dalla vetrina fatiscente di un negozio di musica / In cima all’albero di Natale una bella stella / E sotto, una chitarra giapponese nuova di zecca»), il ricordo tenerissimo della sua prima chitarra comprata a rate da mamma Adele di nascosto da papà Dutch che non lo voleva musicista, le prime note strimpellate nella sua cameretta, il primo concerto in New Jersey a 22 anni, con il suo nuovo migliore amico col sassofono, Clarence Clemons gigante gentile col quale creò la E Street Band. 

Bruce Springsteen è sempre stato un uomo sano, un lavoratore instancabile, uno che ha sempre creduto in quello che fa e che ha saputo dare alle sue storie una dimensione epica. Il pubblico lo ama perché è credibile, perché difende principi e ideali di un mondo più giusto e pulito, perché è uno di noi ed è il più bravo di tutti. È così confortante poter vedere un artista che si ama da più di cinquant’anni e che non è diventato la parodia di se stesso, che è passato attraverso le tante svolte del mercato seguendo una sua strada, prendendosi rischi sia artistici sia politici. La sua storia, come la sua voce roca, ruvida, sofferta, è l’incarnazione del rock, ma anche il segno di una vitale sopravvivenza, il gesto dell’ultimo degli eroi romantici che con istinto da ribelle e intensità da puritano riesce ad infiammare i giovani. Springsteen è, in fondo, un grande narratore, autore di un’epopea della strada in cui è facile riconoscere la letteratura dell’altra America.

1 Comment

  • Nica Luglio 1, 2025

    Bravo Pucci, mi è piaciuto il tuo scritto.

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