– Delude il biopic sul mostro sacro del reggae. Il regista Reinaldo Marcus Green non va oltre le banalità e Kingsley Ben-Adir (“Barbie”) non è all’altezza del compito
– Il film è un tentativo nobile ma non ispirato di catturare parte dell’essenza dell’autore di “Jammin’”. Il potere e la complessità dell’artista restano fuori portata per la pellicola, che ha la tipica cornice biografica
– Il 24 maggio Island/UMe pubblicherà una speciale edizione limitata dell’intramontabile album “Exodus”, definito “il miglior album del XX secolo”: «Ogni canzone è un classico, dai messaggi d’amore agli inni della rivoluzione»
Get Up, Stand Up: la musica reggae porta un po’ di vita al box office di Stati Uniti e Canada, dopo un fine settimana nero e altri assai modesti. Bob Marley: One Love, che la Paramount ha portato nelle sale il giorno di San Valentino, è il film più visto del weekend negli States, con un incasso di 27.7 milioni di dollari. In Italia arriverà giovedì 22 febbraio, ma difficilmente sortirà gli stessi effetti. Anche perché, il film è alquanto deludente.
Bob Marley aveva davvero bisogno di questo biopic? Questa è la domanda che ci si pone quando si esce dalla proiezione di Bob Marley: One Love, quarto lungometraggio dell’americano Reinaldo Marcus Green, che, dopo l’allenatore di tennis (padre delle campionesse Venus e Serena) di La Méthode Williams (2021), affronta il mostro sacro del reggae con 250 milioni di dischi venduti e il cui Exodus (1977) era stato incoronato miglior album del XX secolo dalla rivista Time, nel 1999. L’artista è scomparso tragicamente nel 1981, all’età di 36 anni.
Già il trailer non preannunciava nulla di buono. L’apertura di Redemption song e lo stile hollywoodiano annunciavano chiaramente una caricatura vicina alla parodia che abbondava di aforismi un po’ banali: la vita è bella e la pace non è ancora male. Come se il reggae, e per estensione il rastafarismo – un culto politico-religioso nato in Giamaica negli anni Trenta -, trasformasse tutti i suoi seguaci in avventurieri pacifisti un po’ disconnessi dal mondo reale. Se questo metodo cinematografico ha ancora un bel futuro davanti a sé, proporre un film per il “grande pubblico” non dovrebbe mai significare “prendere gli spettatori per degli sciocchi”.
Fin dalle prime immagini, si capisce che Bob Marley: One Love sarà un lungometraggio liscio e compiacente. Peggio ancora, si avverte che l’opera non sarà assolutamente un film sulla musica di Bob Marley. Per quanto riguarda Kingsley Ben-Adir (Barbie), l’attore britannico che interpreta il musicista con dreadlocks sproporzionati, si dirà che fa più o meno quello che può tirando fuori il meglio dalla sua compagna di gioco, l’attrice Lashana Lynch che impersona Rita Marley. La sua performance chiaramente non rimarrà negli annali.
Proporre una biografia di un artista di questo calibro al cinema (in un’ora quaranta) non permette ovviamente di mostrare tutte le sottigliezze. Se alcuni optano per lo spettacolo in stile Bohemian Rhapsody (2018), Rocketman (2019) o Elvis (2022), altri scommettono sulla passione divorante – Tina (Turner) di Brian Gibson o Ray (Charles) di Taylor Hackford. Come svelare tutte le sfaccettature del personaggio? Come mostrare i diversi volti del compositore, del padre e del coniuge senza tradire un po’ la realtà? Perché è di particolari e di approfondimenti che manca terribilmente questo film.
Bob Marley: One Love arriva dodici anni dopo Marley, il documentario di Kevin Macdonald che aveva anche lui ricevuto un’accoglienza contrastante. Reinaldo Marcus Green prometteva di rivelare un aspetto ancora sconosciuto di Bob Marley basandosi su conversazioni reali. Ha scelto di interessarsi a un certo periodo della vita del cantante, dal 1976 al 1978 per essere precisi. Categorizzato come un “musicista apolitico” (una definizione soggetta a dibattito), Marley era considerato da molti giamaicani come un sostenitore del primo ministro Michael Manley, eletto nel 1970 a capo del PNP (Partito Nazionale del Popolo Socialista Democratico), poco dopo le dimissioni del proprio padre Norman Manley. Ma nel bel mezzo della guerra fredda, il sentimento anticomunista si risveglia e il Paese si divide. Molto presto i ghetti si incendiano e la violenza inonda le strade giamaicane. In sintesi, il “socialismo democratico” instaurato da Michael Manley affronta la violenza politica indotta dalla destabilizzazione del regime. Il reggae diventa quindi un simbolo politico di ribellione sociale. Alle 20:30 del 3 dicembre 1976, solo due giorni prima del concerto Smile Jamaica tenutosi al National Heroes Park di Kingston, diversi uomini armati si introdussero nella residenza di Bob Marley. Gli sparano e cercano anche di uccidere sua moglie Rita, il suo manager Don Taylor e l’assistente del gruppo Louis Griffiths. Colpito al petto e al braccio, il cantante salirà nonostante tutto sul palco prima di rifugiarsi a Londra.
Manca nel film il risvolto sconosciuto dell’artista, è un biopic che non aggiunge nulla di nuovo. La ragione di una tale sconfitta è senza dubbio dalla parte dei produttori del lungometraggio: l’attore americano Brad Pitt, i due figli del cantante, Ziggy Marley e Cedella Marley, così come la sua vedova, Rita Marley. Perché sua moglie ha un ruolo importante, come se il film fungesse da omaggio postumo al suo defunto marito e alla loro tumultuosa storia d’amore.
Raccontare la vivacità del musicista giamaicano, che trascorreva pomeriggi interi a giocare a calcio e ha avuto almeno 11 figli nella sua breve vita, è senza dubbio un compito arduo per la maggior parte dei film. One Love segue un Marley più contemplativo in esilio autoimposto a Londra, in tour in Europa, mentre registra l’album del 1977 Exodus e, alla fine, riceve la diagnosi di cancro.
Per quanto riguarda la dimensione musicale dell’opera, l’interesse per un periodo specifico danneggia chiaramente il fan. Si parla ad esempio di Stevie Wonder senza mostrarlo, si ignora l’incontro tra Bob Marley e Mick Jagger in Giamaica (molto prima), ma anche quello tra il musicista e George Harrison: il membro più giovane dei Beatles aveva incrociato l’interprete di Jamming nel 1975. Bob Marley: One Love non piacerà né ai fan e nemmeno ai cinefili.
Bob Marley nacque nel 1945, figlio di una madre di 18 anni e di un uomo bianco molto più anziano che non aveva nulla a che fare con suo figlio. Da ragazzo cresciuto in povertà, dormiva spesso per terra. Cinque anni dopo essersi trasferito a Trench Town di Kingston, registrò il suo primo disco, a 17 anni. Vent’anni dopo morì. Ma già Marley era diventato il volto non solo del reggae, del rastafarismo e della Giamaica, ma della rivoluzione, della resistenza e della pace. Ha lasciato dietro di sé un corpo di opere che è diventato monumentale con il tempo. Redemption Song, No Woman No Cry, War, Trench Town Rock, Get Up Stand Up, Lively Up Yourself, One Love People Get Ready. I Beatles potevano sostenere di essere più grandi di Gesù, ma nessuno pensava – come alcuni hanno fatto per Marley – che fossero in realtà il Secondo Messia.
Una storia, quella di Bob Marley, che è piena di temi da essere troppo per un film, qualsiasi film. Bob Marley: One Love è un tentativo nobile ma non ispirato di catturare parte dell’essenza di Marley. Il potere e la complessità dell’artista restano fuori portata per il film, che ha la tipica cornice biopica intorno alla corsa a un importante concerto con flashback mescolati.
La performance alla quale conduce il film è One Love Peace Concert, realizzato in Giamaica nel 1978 come un modo per guarire il Paese diviso e violento. Marley, durante Jammin’, portò sul palco i leader dei partiti rivali Edward Seaga e Michael Manley. Il tumulto in Giamaica fa da sfondo per tutto il film: le immagini di campi in fiamme corrono ripetutamente come riflesso dei suoi ricordi.
Quando il filmato del vero Marley spunta sui titoli di coda, il confronto è impietoso con il film. La prima cosa che si nota della performance di Ben Kingsley-Adir è che ha la voce, ma è totalmente assente il dinamismo fisico ed il carisma del vero Marley.
In concomitanza con l’uscita del film, il 24 maggio Island/UMe pubblicherà una speciale edizione limitata dell’intramontabile album di Bob Marley: Exodus. Definito dal Time Magazine “il miglior album del XX secolo” («ogni canzone è un classico, dai messaggi d’amore agli inni della rivoluzione») e dalla BBC come “l’album che ha definito il XX secolo”, Exodus si estende oltre i generi, le epoche e i continenti; il suo forte impatto ha portato la cultura e la politica del Terzo Mondo sotto i riflettori mondiali. «Exodus è un documento senza tempo che rivela pubblicamente contemplazioni e riflessioni sulla vita di uno degli artisti più rivoluzionari del XX secolo», scrive il direttore del Jamaican Music Museum Herbie Miller nelle nuove note di copertina.