– Dopo un lungo silenzio, seguito a un infarto, il leggendario leader dei Bauhaus, alfiere del rock gotico, emerge ancora una volta dalle tenebre con un album sorprendente che, per certi versi, ricorda “Blackstar” di David Bowie suo maestro
– Il nuovo lavoro è una sfida alla morte e apre un rinvigorito capitolo in una carriera intrisa di malinconia teatrale e indagine esistenziale. Rappresenta la rinascita crepuscolare di un artista che ha sempre preferito il chiaro di luna ai riflettori
Dopo più di un decennio di quasi silenzio, Peter Murphy, a lungo considerato la voce spettrale del rock gotico e uno degli architetti più duraturi del post-punk, emerge ancora una volta dalle tenebre con Silver Shade, nuovo album solista. Sono passati quattordici anni dal suo ultimo lavoro in studio, Ninth, nel corso dei quali la presenza di Murphy aleggiava come un mito: la sua eredità è legata alla grandezza spettrale del Bauhaus e agli incantesimi baritonali che hanno contribuito a definire un genere. Silver Shade non solo segna un ritorno tanto atteso alle sue attività creative, ma apre un nuovo e rinvigorito capitolo in una carriera intrisa di malinconia teatrale e indagine esistenziale, una rinascita crepuscolare da un artista che ha sempre preferito il chiaro di luna ai riflettori.
Il padrino del rock gotico

L’ascesa di Peter Murphy come alfiere del rock gotico non è stata né accidentale né semplicemente il prodotto di una voce singolare. È stata una convergenza di immagine, presenza e un istinto infallibile. Sul palco, si muoveva meno come un frontman e più come un’apparizione: teatrale, spigoloso e incrollabilmente enigmatico. La sua voce da baritono, allo stesso tempo solenne e seducente, divenne la firma sonora del genere, infilando paesaggi sonori che evocavano cripte, cattedrali e sogni.
Avvolto di nero, con gli occhi cerchiati di kajal, Murphy coltivava un’estetica che rispecchiava il suo sound: vampiresco, etereo e provocatoriamente teatrale. Sebbene i contorni della sua personalità fossero inconfondibilmente suoi, Murphy spesso riconosceva la profonda influenza di David Bowie, il cui mix di glamour e trasgressione offrì un modello iniziale. Ma laddove Bowie si dedicava alla reinvenzione, Murphy rimaneva fedele a una visione singolare, radicata nello spettrale, nel romantico e nel metafisico. Non si limitava a esibirsi, ma incarnava una stirpe di ombre che si estendeva dall’espressionismo tedesco alla disaffezione post-punk. Così facendo, divenne sempre meno un performer e più una presenza misteriosa: un archetipo per un genere che premiava sia l’introspezione che lo spettacolo, e una stella polare per generazioni di artisti attratti dal bello e dal cupo.
Lo scioglimento dei Bauhaus

Quando i Bauhaus si sciolsero nel 1983, dopo una breve ma influente carriera che rimodellò la topografia della musica alternativa, Peter Murphy si trovò a un bivio creativo. Anziché ritirarsi dalla sperimentazione, si avventurò in nuovi territori con Dali’s Car, una collaborazione di breve durata ma dal punto di vista sonoro avventurosa con Mick Karn, il bassista fretless della band art-pop Japan.
Fu un momento di transizione alla carriera solista che sarebbe cominciata cinque anni dopo con Love Hysteria, un album che segnò un deliberato passaggio dal minimalismo austero dei suoi anni al Bauhaus a un suono più pieno e melodico. Sebbene la carriera solista di Murphy abbia prosperato con momenti di profondità artistica e risonanza commerciale, l’attrazione dei Bauhaus restava inevitabile. Così, nel 1998, più di un decennio dopo lo scioglimento della band, la formazione originale si riunì per il “Resurrection Tour”, una serie di esibizioni che riaffermarono il loro duraturo status di gruppo cult e introdussero una nuova generazione alla loro estetica austera e rituale. Una seconda, più ambiziosa reunion seguì nel 2005, culminando in un celebre set al Coachella Valley Music and Arts Festival e in un tour internazionale che durò fino al 2008.

Nonostante le occasionali tensioni che divamparono tra i membri – in particolare tra Murphy e il chitarrista Daniel Ash – queste reunion sottolinearono la duratura influenza di un gruppo spesso accreditato per aver inventato, se non codificato, il linguaggio sonoro e visivo del goth.
Nel 2019, mentre si preparava per un’attesissima residenza al Le Poisson Rouge di New York – una serie di spettacoli che avrebbero dovuto abbracciare la sua carriera e il suo catalogo – Murphy fu colpito da un infarto che lo costrinse a una brusca cancellazione. L’episodio servì come un serio promemoria del passare del tempo per un artista la cui presenza scenica aveva a lungo sfidato la fragilità fisica. Invece di spegnere il suo slancio artistico, tuttavia, la battuta d’arresto sembrò acuire la sua attenzione creativa, gettando le basi per quello che sarebbe diventato Silver Shade.
La rinascita con “Silver Shade”

Prodotto dal veterano britannico Youth (Killing Joke), Murphy offre ciò che si aspetta dalla sua lunga carriera da solista, ma in un modo nuovo. Il suo caratteristico baritono ora porta una gravitas vissuta, rendendo i suoi testi poetici ancora più potenti. I ritmi e i sintetizzatori scuri e pulsanti della sua musica sono uniti da chitarre in aumento e una orchestrazione occasionale, espandendo la sua tavolozza di colori per suonare più cinematografico, persino operistico. Il tema dell’album – invecchiamento e l’impatto del tempo sull’arte e sull’uomo – viene affrontato senza digressioni personale.
Swoon è un intenso brano di apertura: un duetto oscuro con Trent Reznor, spesso collaboratore di Murphy. “Il mio momento di sedermi con i leoni ancora non è venuto”, urla l’ex leader dei Bauhaus sfiorando il tema della morte. Per il clima, le sonorità e talvolta la stessa voce del cantante, Silver Shade sembra la versione di Murphy di Blackstar di David Bowie. Un’idea che diventa ancora più chiara in Hot Roy, una canzone che è allo stesso tempo un’ode all’influenza del Duca bianco e di Mick Ronson e un ricordo del momento in cui Murphy si è trasformato da fan a creatore. È la prospettiva che si ottiene solo con l’età.

Nei primi due terzi dell’album, il sound più maestoso conferisce a ogni canzone una portata epica, sottolineata da frammenti di synth-pop come The Artroom Wonder (con Justin Chancellor di Tool) o Cochita Is Lame nello stile Nick Cave. In quanto tale, questa parte dell’album suona come una raccolta di singoli piuttosto che come un insieme coeso. Tematicamente, tutto funziona, ma, dal punto di vista sonoro, ogni canzone sembra ripetitiva e familiare.
Questo fino alle ultime tre tracce, che suonano come una mini-suite. Soothsayer è un rock catartico, che libera l’album dalle sue vibrazioni consolidate, chiedendo a tutti gli artisti di rimanere fedeli al proprio talento. Seguono la chitarra spagnola e gli archi di Time Waits, che rallentano brevemente il ritmo per implorare (e, si spera, illuminare) l’ascoltatore. Funzionano come un reset, così che quando torniamo all’audace crescendo di Sailmaker’s Charm, l’album di Murphy ha il finale intenso e spettacolare che merita.
Silver Shade è ciò che tutti possiamo sperare di essere a 67 anni: imperfetti, forse scontati, ma anche rumorosi, vivaci e sfacciatamente noi stessi. Abbracciando una prospettiva guadagnata solo con l’età, Peter Murphy continua a trovare nuove sfumature dopo quattro decenni di illustre carriera.