– Domenica 22 giugno la band icona della disco music aprirà il “Sicilia Jazz Festival” (così è, se vi pare), forse per dare appeal a una rassegna milionaria ma poco attraente
– Sembravano destinati a dissolversi con il passare delle mode, invece sono tornati alla ribalta sulla scia del successo social del balletto del presidente americano
– Il caso dell’inno “Y.M.C.A.”: «Non è una canzone gay. Siamo omosessuali e ne siamo orgogliosi. Ma l’idea principale è che siamo americani e orgogliosi di esserlo»
Che c’azzeccano i Village People con il jazz lo sa soltanto il Brass Group di Palermo. Che pur di portare pubblico al poco attraente, ma milionario, Sicilia Jazz Festival non si pone questi dubbi. Tant’è che mescola Nina Zilli e Piero Pelù con il chitarrista John Pizzarelli e il bassista Victor Wooten. Non solo. Domenica 22 giugno al Teatro di Verdura di Palermo concede anche l’onore dell’apertura alla band icona degli anni Settanta che ha fatto ballare diverse generazioni e fatto roteare le braccia sulle piste da ballo di tutto il mondo per formare le lettere del titolo (Y, Young, M, Men’s, C, Christian, A, Association) della loro canzone più famosa.
I tempi che viviamo suggeriscono una seconda lettura di questa concessione: un omaggio al nuovo inquilino della Casa Bianca, al quale si deve il rilancio di una band considerata da molti un fenomeno da baraccone. Accadde lo scorso 19 gennaio. Il pubblico della Capitol One Arena di Washington DC ha avuto modo di assistere a una delle scene più surreali della carriera dei Village People. Mentre la versione odierna della band cantava Y.M.C.A., è salito sul palco il più celebre tra i fan, nonché l’uomo che poche ore prima aveva giurato come presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Vedere un presidente sul palco con cantanti vestiti uno da poliziotto, uno da indiano d’America, uno da muratore, uno da militare, uno da cowboy e uno da leather man. è stato davvero bizzarro.
Nati a tavolino quasi mezzo secolo fa da una coppia di produttori francesi, i Village People erano l’epitome della novelty band destinata a dissolversi col passare delle mode. E invece nel 2025, nella capitale degli Stati Uniti, c’erano loro, o almeno una loro incarnazione. E si esibivano per un pubblico di orientamento trumpiano che ha accolto a braccia aperte un gruppo di cantanti in costumi stravaganti, con un immaginario interpretabile sia come una celebrazione del machismo, sia come una fantasia gay.
«Abbiamo sempre inteso Y.M.C.A. come pezzo pop. E una canzone pop è per definizione popolare, può essere ascoltata e apprezzata da un gran numero di persone», sottolinea a Rollingstone Randy Jones, il primo e più famoso cowboy della band, di cui non fa più parte. «Non abbiamo mai mirato a un particolare target demografico, non abbiamo mai cercato di escludere qualcuno. Facevamo musica per tutti»,
La passione di Trump e dei suoi sostenitori per i Village People è solo l’ultimo imprevedibile colpo di scena di un gruppo, di un franchise e di una saga che va avanti nonostante cambi di formazione, guerre legali, mutamenti di stile e malumori. Era dai tempi dello Studio 54 che i Village People non avevano un’esposizione del genere. Grazie al sodalizio con Trump e all’associazione della sua figura con Y.M.C.A., la canzone è tornata in cima alla classifica dance di Billboard, a quarantasette anni dall’uscita.
La nascita a tavolino della band gay
Verso la metà degli anni Settanta a a New York l’Anvil, un ex motel trasformato in bar e gay club a downtown, era diventato il posto giusto per vedere spettacoli di drag queen e rimorchiare uomini. Felipe Rose, un newyorkese di origini portoricane che si vestiva con abiti dei nativi americani, era uno dei ballerini del locale e spesso si esibiva con dei campanelli ai piedi. Una sera del 1977, Jacques Morali, un produttore discografico francese che si era trasferito in America, era al bar del locale e notò Rose che ballava. «Quando mi ha visto e ha sentito il suono di quei campanelli, ha chiesto: “Che cos’è?”», ricorda Rose. «Qualcuno gli ha risposto: “È quel ragazzo laggiù”. Ha alzato lo sguardo e ha detto: “Oh, mio Dio”. Ero bellissimo. Ed ero unico».

Morali, che era gay, e il suo socio in affari, il produttore discografico francese e talent scout Henri Belolo, sognavano di conquistare l’industria musicale americana con la Ritchie Family, una band disco fra i cui membri in realtà non c’era alcuna parentela. Qualche sera dopo essere stato all’Anvil, Morali (morto nel 1991) si è avventurato in un altro gay bar dove ha visto degli uomini vestiti da cowboy e da muratori. «I gay non hanno un gruppo di riferimento», diceva nel 1978 a Rollingstone. L’anno dopo Belolo (morto nel 2019) raccontava che «è poi venuto da me dicendo: “Henri, creeremo un gruppo chiamato Village People”».
Ingaggiati gli autori Peter Whitehead e Phil Hurtt, Morali e Belolo hanno messo assieme pezzi ritmati abbinati a testi che esaltavano le comunità gay del Greenwich Village, di San Francisco, di Fire Island e di Hollywood. (“Non andare fra i cespugli / Qualcuno potrebbe prenderti” è un verso di Fire Island, che parla della zona appartata di Long Island). Per la voce principale, i produttori reclutarono Victor Willis con il suo timbro soul e potente, che in quel periodo era nel cast della versione per Broadway di The Wiz. Ma quando il disco è esploso nei club, l’etichetta Casablanca ha capito che era necessario assemblare una formazione vera e propria dei Village People per le esibizioni live. I produttori si affrettarono a mettere assieme Willis, Rose e i coristi Alex Briley e Whitehead, che dopo poco ha lasciato. Si è poi stabilita la line-up classica: Willis (il poliziotto), Felipe Rose (il nativo americano), Alex Briley (il militare), Randy Jones (il cowboy), Glenn Hughes (l’uomo vestito in pelle) e David Hodo (il muratore).
Siamo gay e ne siamo orgogliosi. Ma l’idea principale è che siamo americani e orgogliosi di esserlo. È diventata tutta una questione di stereotipi e archetipi. I nostri cowboy e indiano non si sono ammazzati fra loro, sono felici e sorridono. Ci sono dei poliziotti neri vicino a operai edili bianchi e nativi americani: è una versione pacifica e gioiosa del melting pot culturale. Gli anni Settanta sono stati un’epoca buia per la cultura e quindi, forse, inconsciamente tante persone in America avevano bisogno di vedere questo ritratto positivo
A poco a poco, la natura omosessuale del progetto è passata in secondo piano e i Village People si sono trasformati in un gruppo per famiglie che celebra gli archetipi americani. «Siamo gay e ne siamo orgogliosi», spiegava Belolo. «Ma l’idea principale è che siamo americani e orgogliosi di esserlo. È diventata tutta una questione di stereotipi e archetipi. I nostri cowboy e indiano non si sono ammazzati fra loro, sono felici e sorridono. Ci sono dei poliziotti neri vicino a operai edili bianchi e nativi americani: è una versione pacifica e gioiosa del melting pot culturale. Gli anni Settanta sono stati un’epoca buia per la cultura e quindi, forse, inconsciamente tante persone in America avevano bisogno di vedere questo ritratto positivo».
Come l’ascesa, anche la caduta è stata rapida. Durante la fase di produzione del film Can’t Stop the Music (1980), Willis mollò il gruppo a causa, dice, di problemi con la sceneggiatura, per lanciarsi poi in una carriera da solista. Le critiche al film e alla disco music, compresa la famigerata Disco Demolition, la sera dei roghi di dischi al Comiskey Park di Chicago nel 1979, posero fine alla serie di hit della band. Col nuovo cantante Ray Simpson, i Village People per un breve lasso di tempo abbandonarono i costumi per darsi al new romantic. Nel 1981 hanno registrato Renaissance: un flop.
Tornano verso la fine degli anni ‘80, quando alcuni componenti di spicco come Rose e Jones (ma non Willis) acquisirono in licenza il nome dalla Can’t Stop Productions e si sono rimessi in pista, esibendosi a matrimoni, eventi aziendali, ovunque li chiamassero. Un’operazione nostalgia: il gruppo venne parodiato in Fusi di testa e nel video di Discothèque degli U2 ed è andato in tour con Cher.
Controversie e declino

Nonostante il loro successo, i Village People sono stati al centro di lunghe controversie. Molti hanno interpretato le loro canzoni come inni alla cultura gay, soprattutto Y.M.C.A.. Tuttavia, Victor Willis ha sempre dichiarato che la canzone non era intesa come un inno gay e ha minacciato azioni legali contro chi la definiva tale.
Questa ambiguità ha alimentato dibattiti sulla natura delle loro canzoni e sul loro ruolo nella cultura popolare. Alcuni vedono nei Village People una rappresentazione della liberazione sessuale e dell’inclusività, mentre altri li considerano semplicemente un fenomeno da baraccone.
Con la fine dell’era della disco music, i Village People videro un calo della popolarità. Tuttavia, continuarono a esibirsi e a pubblicare musica. Nel 1985, fecero uscire l’album Sex Over the Phone, che però non ebbe lo stesso impatto dei precedenti lavori. Il gruppo, nel suo piccolo, ha comunque mantenuto una fedele base di fan e ha continuato a esibirsi in eventi speciali e festival. Nel 2021, si sono esibiti anche in Italia durante il programma televisivo “Arena Suzuki ’60 ’70 ’80” su Rai 1, dove hanno cantato i loro successi più noti.
Poi è arrivato Donald Trump
Durante la corsa alla Casa Bianca, Donald Trump occasionalmente iniziava a ballare le iconiche canzoni di Village People. I suoi movimenti di danza distintivi sono diventati rapidamente virali: la danza sembra qualcuno in piedi sul posto e pompa le braccia avanti e indietro, come se cercasse di asciugarsi la schiena con un asciugamano invisibile. Gli utenti di TikTok adottarono replicarono quelle movenze facendo conoscere Y.M.C.A. a una generazione completamente nuova.
«Sono state migliaia le persone che hanno reagito alla notizia, racconta Willis. «Ma, sulla mia pagina Facebook, ci sono anche tante persone che dicono: “Non ascolteremo più la tua musica”. Noi, però, con la nostra musica cerchiamo di far riunire le persone e unire il Paese, indipendentemente dal fatto che tu non abbia votato per Trump. Fondamentalmente, sono un democratico. Abbiamo perso, quindi… dobbiamo metterlo da parte e seguire il presidente eletto».
Nessuno nella cerchia dei Village People saprebbe individuare il momento esatto in cui Trump è diventato un fan di Y.M.C.A. o del gruppo, ma molti ipotizzano che tutto sia iniziato con la nightlife della New York anni ’70. Jones e Rose ricordano di aver visto un giovane Trump frequentare la scena dei club newyorkesi. «So che la conosceva fin dal nostro primo incontro nel 1978 allo Studio 54, dove Y.M.C.A. veniva suonata ogni sera», racconta Jones. È anche probabile che Trump abbia ascoltato più volte Y.M.C.A. durante le partite dei New York Yankees: la canzone, infatti, viene suonata al sesto inning e lì è più legata al tifo sportivo che alla cultura gay.
«Come straniero, sono orgoglioso di partecipare in piccola parte a un pezzo di storia americana», commenta Jonathan Belolo, figlio di uno dei fondatori della band. «Spero solo che il nuovo presidente non rappresenti la fine della democrazia in America».