– Da giovedì 8 maggio (con anteprime siciliane da martedì 6) nelle sale “L’amore che ho”, il lavoro del regista Paolo Licata, l’ultimo a tentare di dare il giusto rilievo alla figura della “cantatrice del Sud” ancora poco conosciuta e stimata nella sua terra
– Un cast importante con quattro attrici a interpretare la “donna del popolo” – Lucia Sardo, Donatella Finocchiaro, Anita Pomario e Martina Ziami – Loredana Marino, Mario Incudine, Vincenzo Ferrera e Carmen Consoli autrice della colonna sonora
– «Tutte le protagoniste cantano dal vivo e cantano bene, nel rispetto e nella continuità stilistica. È questa la chiave della riuscita dell’operazione». «C’è una grande riscoperta soprattutto da parte delle nuove generazioni di musiciste, “cantantesse”, autrici»
«Oggi per il palermitano la tradizione non è Rosa Balistreri, che non la conosce nessuno, ma è il neomelodico. Tutti conoscono Nino D’Angelo o Geolier, non Rosa Balistreri», diceva Alessio Bondì parlando del suo album Runnegghiè. E tre anni fa Isabella Ragonese, a proposito del suo debutto cinematografico con Rosa. Il canto delle sirene, trasmesso da Sky Arte, raccontava: «Ancora adesso, quando chiedevo di Rosa alle persone più anziane, loro ne parlavano come di una prostituta. Girare per locali, suonare e fare tardi, per la gente non significava essere un’artista, ma essere una che non stava rincasando alle otto e non si stava dedicando alla famiglia. Mi sembrava fosse un personaggio rappresentativo della mia città, Sky però non la conosceva, così hanno pensato che sarebbe stato bello far qualcosa per farla scoprire anche ad altri».
La “cantatrice del Sud” è stata davvero l’anima della Sicilia, non a caso paragonata ad Amália Rodrigues, l’“alma do fado”. Ma se l’artista portoghese è ancora oggi venerata nel suo Paese, Rosa Balistreri non ha mai ricevuto nella sua terra gli stessi onori e riconoscimenti. Né quando era in vita, né dopo la sua morte.
La pasionaria di Licata, la donna con la chitarra che non voleva ridurre la sua terra allo stereotipo di Vitti ‘na crozza, che mandò a quel paese Francis Ford Coppola quando la chiamò per il Padrino, la folksinger cara all’intellighenzia siciliana e a Dario Fo, fu un personaggio scomodo per l’establishment (che le chiuse le porte del Festival di Sanremo) e, alla lunga, persino per quel Partito comunista isolano, al cui fianco aveva a lungo combattuto. Morì a Palermo il 20 settembre 1990 in miseria o quasi. È sepolta nel cimitero fiorentino di Trespiano. E fino a una dozzina di anni fa pochi si ricordavano di lei.
I tentativi di rilanciarla
Fu Carmen Consoli a riscoprirla con un evento che ebbe un’eco nazionale: il 31 maggio 2008, in piazza Università a Catania, la “cantantessa” riunì sul palco dieci primedonne della scena musicale italiana per cantare le canzoni di Rosa a una “terra ca nun sente”. Quella sera la Sicilia, e non solo, ascoltò.
Due anni dopo, per il ventennale della morte, il regista Nello Correale volle raccontare la cantatrice nel documentario La voce di Rosa, nel quale «la immagino come una straordinaria blues woman, una donna che dà voce ad un sentimento che ti arriva dritto in faccia». Il lavoro vede protagonista Donatella Finocchiaro, che interpreta se stessa alle prese con la realizzazione di uno spettacolo dedicato alla folksinger.
Successivamente, nel 2017, esce il docu-film Rosa Balistreri – un film senza autore di Marta La Licata, con la regia di Fedora Sasso, con la pubblicazione di alcuni inediti e le testimonianze e l’omaggio di molti intellettuali che con lei collaborarono, fra i quali Andrea Camilleri, Leo Gullotta, Otello Profazio e Gianni Belfiore. Fu proprio il paroliere di Julio Iglesias a lanciare la cantante di Licata. Da questa collaborazione sarebbero nati Amuri senza amuri, uno dei classici di Rosa Balistreri, e A riti e Il viaggio, in cui Belfiore adattò una novella di Pirandello e dalla quale è stato tratto l’omonimo film con Richard Burton e Sophia Loren. «Rosa era un talento unico al mondo», ricorda Gianni Belfiore, che ha ancora un inedito nel cassetto. «La sua maniera di cantare, la modulazione della voce, erano modernissime. È stata la nostra Amália Rodrigues. Già allora nessuno la voleva».
Soltanto nel 2018, la Regione Sicilia “scopre” la “donna di Licata”, il cui nome viene iscritto nel “Registro delle Eredità immateriali della Sicilia – Libro delle pratiche espressive e dei repertori orali”. Rosa Balistreri diventa patrimonio culturale siciliano. Ventotto anni dopo la sua scomparsa. Ma, successivamente, passa in sordina anche il trentennale della morte, ricordato soltanto dal film di Isabella Ragonese su Sky Arte. Per fortuna c’è stato Thom Yorke dei Radiohead a rilanciare le canzoni della “donna del popolo” e, oltre oceano, la giovane Amanda Pascali traduce in inglese i brani di Rosa Balistreri “rivitalizzandoli” per portarli in giro per il mondo.
Vedremo se sarà più fortunato il regista Paolo Licata, l’ultimo a tentare di dare il giusto rilievo alla figura della “cantatrice del Sud” con il film L’amore che ho, che da giovedì 8 maggio sarà nelle sale italiane con anteprime, alla presenza del cast, martedì 6 maggio al Cityplex Tiffany di Palermo, mercoledì 7 marzo Fly Cinema di Licata, giovedì 8 al King di Catania e all’Aurora di Siracusa.
La pellicola, il cui titolo richiama una delle canzoni più celebri di Rosa Balistreri (L’amuri ca v’haiu, “L’amore che ho per voi”), trae ispirazione dall’omonimo romanzo di Luca Torregrossa, nipote di Rosa Balistreri (ma la chiamava mamma), e si addentra nei drammi e nelle gioie della vita della donna di Licata.
Il nuovo film: “L’amore che ho”
Il film racconta con delicatezza e intensità il tentativo di Rosa Balistreri, ormai anziana, di ricucire il difficile rapporto con la figlia Angela. Il legame tormentato, che alimenta il filo narrativo dell’opera, si sviluppa attraverso un dialogo tra presente e passato, con continui flashback che ripercorrono l’infanzia e la carriera di Rosa. Cresciuta nella povertà più estrema della Sicilia rurale e segnata da esperienze di violenza e discriminazione, Rosa ha trovato nella musica non solo una via di riscatto personale, ma anche uno strumento di denuncia sociale. La sua voce, graffiante e vibrante, è diventata il simbolo delle lotte per i diritti dei lavoratori, contro la mafia e a favore dell’emancipazione femminile, in un periodo cruciale per l’Italia.

Il cast è uno dei punti di forza del film. Lucia Sardo, Donatella Finocchiaro, Anita Pomario e Martina Ziami interpretano Rosa nelle diverse fasi della sua vita, ciascuna restituendo con autenticità un aspetto della sua personalità poliedrica: dalla determinazione della giovinezza alla fragilità dell’età adulta. Tania Bambaci dà volto e anima ad Angela, la figlia di Rosa, il cui rapporto conflittuale con la madre diventa il cuore emotivo della storia. Vincenzo Ferrera è Emanuele, il padre di Rosa, un personaggio impregnato della cultura patriarcale del suo tempo, in cui amore e durezza convivono in un equilibrio drammatico. Loredana Marino interpreta Vincenza, la mamma di Rosa.
Vincenzina aveva 14 anni quando partorì Rosa. «Era vittima dei maltrattamenti del marito Emanuele», racconta Loredana Marino che la interpreta. «Nel film ci sono scene molto crude. E da lì viene la storia di Rosa. Vincenza viene picchiata, maltrattata, fa una vita terribile con tutte queste figlie piccoline. Quando stava per arrivare un altro figlio, Emanuele la aggredì ubriaco con una sega. Vivono tutti dentro una casetta, dove il marito ubriaco torna quando vuole lui, ha un vaso dove fa i suoi bisogni nella stessa stanza, poi fa i suoi porci comodi con la moglie davanti alle bambine. Le figlie che si tappano gli occhi a vicenda, perché dormono tutti nello stesso letto. Rosa, con Vincenzina, aveva un rapporto simbiotico. Tant’è che dopo la morte del padre, non si distacca mai dalla madre, la porta sempre con sé, ai concerti, a Firenze quando si trasferisce».
Nel film ci sono scene molto crude. E da lì viene la storia di Rosa. La madre Vincenza viene picchiata, maltrattata, fa una vita terribile con tutte queste figlie piccoline. Rosa, con Vincenzina, aveva un rapporto simbiotico. Tant’è che dopo la morte del padre, non si distacca mai dalla madre, la porta sempre con sé, ai concerti, a Firenze quando si trasferisce
Loredana Marino

Nel cast c’è anche Mario Incudine che ha un piccolo ma intenso cameo: è don Ciccio il cantastorie che apre anche il trailer del film. «È il primo cantastorie che Rosa Balistreri incontra nella sua vita e ne rimane affascinata a tal punto da decidere di fare anche lei quel lavoro», racconta il mattatore ennese impegnato in questi giorni nelle prove dello spettacolo Un giorno da formica, una favola ecologista in musica, con Paride Benassai e Eugenio Mastrandrea compagni d’avventura. «Rosa lo vede spesso, perché era il cantastorie che intratteneva i clienti della taverna dove il padre Emanuele andava a bere. Lei era ancora una bambina e lo guardava dalle grate», continua a raccontare. «Da ragazza lo incontrò in una festa di paese e lo affrontò sfidandolo: “Io da grande voglio fare come a vussia!”. E lui risponde: “E quannu mai s’ha visto una cantastorie fimmina”. E Rosa replica: “Vuol dire che io sarò la prima”. Tant’è vero che il primo vinile di Rosa Balistreri s’intitola La cantastorie di Licata».
Curiosità delle nuove generazioni
Loredana Marino come Mario Incudine, nelle loro carriere musicali e teatrali, hanno entrambi affrontato la figura di Rosa Balistreri. Entrambi ripongono nel film la speranza di un rilancio della “donna del popolo”.
«Non ti nego che quando ho parlato di Rosa pochi la conoscevano, fuori nessuno», confessa l’attrice catanese. «Penso che l’occasione di Rosa sia questo film. È un personaggio tragico, di grande attualità, come ha dimostrato il successo strabiliante del mio spettacolo che sto per riportare in scena e nel quale la interpreto come un personaggio rock, quale è stata ante litteram».

Il cantattore ennese vede «una grande riscoperta da parte delle nuove generazioni, grazie anche al lavoro che ha fatto Carmen. Perché lei nel ruolo di “popstar” è riuscita a sdoganarla meglio di come abbiamo fatto noi che invece siamo rimasti nel solco della tradizione».
«C’è una grande riscoperta soprattutto da parte delle nuove generazioni di musiciste, “cantantesse”, autrici», continua Incudine. «C’è un proliferare di canto al femminile ispirato a Rosa di giovanissime, parlo di 16/18 anni, che stanno popolando la scena indipendente in questo momento. E questo è positivo. Noi che veniamo dalla generazione che si è formata con Rosa abbiamo una consapevolezza diversa, gli altri tentano di imitarla o di rifarsi a questo mondo “borderline”, com’era lei, forse più per moda che per devozione. Però c’è un grande interesse attorno alla figura di Rosa e questo film amplificherà ancor di più questa curiosità, anche perché è fatto davvero bene, non è retorico, è pressocché fedele e poi perché Carmen ha fatto un lavoro pazzesco nel fare cantare le attrici. Quindi, non è il “musicarello”, dove c’è la voce registrata di Rosa Balistreri e le attrici cantano in playback. Assolutamente no: qua cantano le tre protagoniste che interpretano Rosa. La cantano dal vivo e la cantano bene, nel rispetto e nella continuità stilistica. È questa la chiave della riuscita dell’operazione»
Questo film non è il “musicarello”, dove c’è la voce registrata di Rosa Balistreri e le attrici cantano in playback. Assolutamente no: qua cantano le tre protagoniste che interpretano Rosa. La cantano dal vivo e la cantano bene, nel rispetto e nella continuità stilistica. È questa la chiave della riuscita dell’operazione
MARIO INCUDINE
Carmen Consoli e le attrici cantanti
Non meno importante è il contributo di Carmen Consoli, che, oltre a interpretare il ruolo di Alice, firma le musiche originali del film. La cantantessa (definizione estrapolata da quella di “cantattrice” legata a Rosa Balistreri), riesce a trasportare nelle sonorità della colonna sonora tutta l’intensità e la passione che hanno caratterizzato la vita e le canzoni di Rosa, alla quale ha dedicato anche lo spettacolo Terra ca nun senti, che ha portato in giro per il mondo. La musica, nel film, non è solo un elemento narrativo, ma un vero e proprio personaggio, capace di scandire le fasi della vicenda e dare voce ai sentimenti più profondi.

«Un lavoro strabiliante», commenta Carmen Consoli. «Per restituire l’immagine di una sola donna ce ne sono volute altre tre, ma sono rimasta colpita dal lavoro che hanno fatto con le loro voci nel canto. È ovvio che Rosa è una voce incredibile, neanche io con le mie colleghe più brave insieme forse riusciremmo ad eguagliare la potenza di questa donna. Era piccola, piccola, ma aveva una potenza eccezionale. Lei emetteva questo suono e la si potava sentire dappertutto per quanto era potente. Loro però hanno fatto vivere Rosa nella voce e – come si dice in Sicilia – hanno restituito “la calata” di Rosa. È vero che somaticamente forse non le somigliano, ma recitando accanto a Lucia Sardo, mentre la accompagnavo alla chitarra, ho avuto una suggestione bellissima: in quel momento per me era lei, nonostante non le somigliasse; è stato molto emozionante».
Abbiamo lavorato non sulla somiglianza fisica, perché siamo tutte diverse da Rosa, ma ci interessava una comunicazione di anime, di temperamento. Il canto per lei era una forma di riscatto sociale. Col canto urlava contro gli uomini, contro i preti, contro i mafiosi, in difesa dei deboli. Era un canto sociale, politico, di riscatto delle donne. È stata una donna che ha avuto, in quell’epoca, il coraggio di dire “no”
donatella finocchiaro
«Carmen ci ha fatto cantare, abbiamo usato le nostre voci», racconta Donatella Finocchiaro. «Abbiamo lavorato non sulla somiglianza fisica, perché siamo tutte diverse da Rosa, ma ci interessava una comunicazione di anime, di temperamento. Il canto per lei era una forma di riscatto sociale. Col canto urlava contro gli uomini, contro i preti, contro i mafiosi, in difesa dei deboli. Era un canto sociale, politico, di riscatto delle donne. È stata una donna che ha avuto, in quell’epoca, il coraggio di dire “no”».
«Abbiamo tentato di cogliere l’essenza e spero che ci siamo riuscite», interviene Lucia Sardo. «Lei era un’animale, una tigre. Rosa, con il suo sacrificio, ha reso sacro il suo lavoro e la dignità delle donne».
«Per Rosa non esisteva il compromesso, e quando si accorge che i suoi no, il suo andare contro, la danneggiavano, ha proseguito sulla sua strada», aggiunge Anita Pomario. «Lei voleva rimanere fedele a se stessa e a quello in cui credeva. E questo l’ha resa unica».
Che ne è della canzone politica alla Balistreri? Oggi si assiste a un impoverimento del linguaggio, al fenomeno della mancanza di contenuti, una cosa che riguarda tutta l’arte e dunque anche il cinema. Siamo insomma in una situazione orwelliana. Rosa è invece rivoluzionaria, la sua cultura nasce dal nulla, impara a scrivere e leggere da sola e si circonda di intellettuali, capisce che la cultura è l’unica cosa che la può far evolvere. Non si piega ai soprusi, non fa parte del ciclo dei vinti, è una rivoluzionaria contro il patriarcato
carmen consoli
«Che ne è della canzone politica alla Balistreri? Oggi si assiste a un impoverimento del linguaggio, al fenomeno della mancanza di contenuti, una cosa che riguarda tutta l’arte e dunque anche il cinema. Siamo insomma in una situazione orwelliana. Rosa è invece rivoluzionaria, la sua cultura nasce dal nulla, impara a scrivere e leggere da sola e si circonda di intellettuali, capisce che la cultura è l’unica cosa che la può far evolvere. Non si piega ai soprusi, non fa parte del ciclo dei vinti, è una rivoluzionaria contro il patriarcato», commenta Carmen Consoli. «Io penso che debba ritornare tutto in mano all’essere umano, dobbiamo domandarci cos’è umano e cosa non lo è. Purtroppo un pensiero troppo binario, digitale ci disumanizza». E per chiarire il suo pensiero ricorre ad un esempio molto semplice: le melanzane alla parmigiana, la cui vera ricetta vorrebbe che le melanzane fossero rigorosamente fritte, ma, per una smania salutista, adesso va di moda farle al forno. «Ma secondo voi Rosa cosa verrebbe detto? Avrebbe detto: “La parmigiana deve essere fritta, se no non se ne fa niente”. Ecco a volte bisogna essere anche fritti, non vergognarci di essere fritti senza aver paura».
Il film non è solo un omaggio a un’artista straordinaria, ma anche un racconto che attraversa un periodo storico di grande fermento per l’Italia. Attraverso la figura di Rosa, il paese di Licata esplora le trasformazioni culturali, sociali e politiche degli anni ’60 e ’70, con uno stile visivo che distingue nettamente le epoche rappresentate. La fotografia dei flashback utilizza tonalità pastello e atmosfere vintage, in contrasto con le tinte più fredde e spoglie del presente, per enfatizzare la nostalgia e il peso dei ricordi. La narrazione si intreccia strettamente con il dialetto siciliano, usato per immergere lo spettatore nelle atmosfere dell’entroterra isolano e sottolineare la connessione viscerale di Rosa con la sua terra.