– Venerdì 10 gennaio esce l’esplosivo ed emozionante nuovo album “Musica del mondo”: è la summa di un percorso controcorrente cominciato cinquant’anni fa e di un tour mondiale. Il padre del Taranta Power sale sulle barricate e usa le radici come arma per la rivoluzione
– «Un racconto che attraversa il mare e la musica del mondo», dal Mediterraneo al Brasile sino all’Oceano Indiano, passando per la Sicilia e la Calabria. «La musica può contribuire a contrapporre alla logica del profitto quella della bellezza e del contatto umano»
«Quello che ci vuole è un vento popolare per stracciare le bandiere di chi ancora guerra vuole fare… Quello che ci vuole è il movimento di una musica di strada, nuovo sound di nuova tammurriata», canta Eugenio Bennato in Musica del mondo, il brano che dà il titolo al nuovo album in uscita venerdì 10 gennaio e che solleva un vento che è melodia, libertà, «un racconto che attraversa il mare e la musica del mondo», dal Mediterraneo al Brasile sino all’Oceano Indiano.
E proprio a Nuova Delhi è nato Musica del mondo, dall’incontro con lo Yar Mohammad Group. «Ho scritto il brano e il giorno dopo eravamo in sala di registrazione», racconta Bennato. «Le canzoni sono ponti tra culture, ci siamo intesi subito, come se fossi in Calabria o in Sicilia. Una piccola fiammella di speranza in un pianeta che fa sempre più paura».
L’album Musica del mondo è il consuntivo non soltanto di un lungo tour mondiale che ha portato dal Fugazi club di San Francisco ai teatri di Lisbona e Nuova Delhi, ma di un percorso cominciato cinquant’anni fa.
«Negli anni Settanta, da ragazzo, mi inventai la Nuova Compagnia di Canto Popolare, una band musicale che partiva dai modelli degli sconosciuti cantori del sud e cominciò a girare per il mondo», ricostruisce. «Poi vennero i briganti della storia meridionale, i migranti del Mediterraneo, Taranta Power, che segnò l’ingresso della musica etnica italiana nella World Music. Da sempre una musica delle minoranze, una musica che conta poco nel business della civiltà globale. Musica del mondo è tutto questo. Sono pensieri, idee, ideali, trasformati in parole e musiche senza confini. Ci ritrovo il mio punto di partenza e il mio approdo, la convinzione di allora che la musica possa contribuire a contrapporre alla logica del profitto quella della bellezza e del contatto umano».
I Sud del mondo e, in particolare, d’Italia restano centrale nella narrazione del folkautore. Un Sud che grida e che sfida con la sua musica proibita. La Sicilia fa capolino nella favola mediterranea di Limoni a Varsavia: «È la follia di questo disco, viene dall’omonimo film del mio amico Bruno Colella. È la storia, vera, di due ristoratori siciliani che partono dal loro paese e aprono un ristorante a Varsavia. Un vecchio zio, un po’ alchimista, gli lascia una pianta di limoni con la capacità magica di attecchire persino a Varsavia».
In Mongiana, invece, racconta la storia delle Reali Ferriere di Mongiana, una delle fabbriche siderurgiche più importanti del XIX secolo, la cui chiusura con l’Unità d’Italia segnò un colpo durissimo per la Calabria. Un evento che portò una “dissociazione” tra la storia e la memoria collettiva: il nome di Mongiana è stato cancellato dai libri, dai racconti e dalla coscienza comune, come se quella pagina fosse stata volontariamente rimossa. Eugenio Bennato dà voce a questa dimenticanza, cercando di riaccendere un ricordo soffocato e sfidando il silenzio che ha avvolto la vicenda: invita a riflettere su «che fine ha fatto il nome di Mongiana», tentando di recuperare una memoria storica negata e utilizzando il ritmo e le tradizioni della musica popolare calabrese come strumenti di riscatto e di consapevolezza anche grazie alla collaborazione nel brano dell’Orchestra Sinfonica Brutia del Conservatorio di Cosenza.
«Fra le tante storie che il mio Sud mi ha raccontato, quella di Mongiana è forse la più clamorosa, perché va a ribaltare un’immagine consolidata da decenni e da secoli, l’immagine di una Calabria arroccata nelle sue antiche tradizioni e incapace da sempre di interpretare e affrontare la modernità», commenta Eugenio Bennato. «Eppure, le splendide case operaie costruite a metà Ottocento sono lì e ci rimandano alla presenza di 2.800 operai e tecnici che curavano la produzione siderurgica della più grande fabbrica dell’Italia preunitaria, sfornando l’acciaio utilizzato per il ponte sul Garigliano e per le rotaie della ferrovia che da Napoli saliva a Bologna. Con l’Unità quella fabbrica fu dismessa e gli altoforni furono trasportati a Terni e a Lumezzane. A parte la dissennata dismissione, mi ha scosso la totale rimozione del nome Mongiana da tutti i libri di storia, da tutti i pensieri, da tutti i ricordi. Al punto che oggi quel racconto appare come un sogno lontanissimo dalla realtà. E allora mi viene incontro la realtà della musica popolare calabrese, per provare a infrangere con il suo ritmo quel tabù impenetrabile, quella storia incredibile».
Ed è in Calabria che dobbiamo rintracciare anche Torre Melissa. «Racconta di un evento della nostra storia recente, quando all’alba del gennaio 2019, in una notte di tempesta, un battello di migranti si arenò sulla spiaggia della cittadina calabrese e gli abitanti furono svegliati dalle grida di aiuto: senza pensarci si buttarono a mare in tanti, li salvarono. Ci sarà anche chi vuole discutere su chi debba salvare una vita, quando, come… Di fronte a qualcuno in pericolo di morte non ci sono esitazioni possibili: ci si butta, si prova a fare quanto in nostra possibilità. A Torre Melissa c’erano uomini e donne di buona volontà».
Controcorrente, quasi barricadero e combattente, alla maggioranza dominante ed al pensiero unico Eugenio Bennato oppone gli ultimi di W chi non conta niente e la Grande Minoranza, le musiche delle feste di piazza, le canzoni dei briganti, la taranta. E la Tammorra song, «canzone che ho scritto su un ritmo di tammurriata subito dopo un concerto a San Francisco, sorpreso dall’irruzione nella sala, a metà performance, di una schiera di “tarantate” d’Oltreoceano, invasate e capaci di coinvolgere nel ballo tutta la platea». Le radici come arma per la rivoluzione: «Quanno la tammorra sona / Questa terra è viva ancora».
Le radici. Le voci vesuviane ed i ritmi popolari di Welcome to Napoli, il suono vivo primitivo e naturale di Noi persi nel sentimento. Le radici e la famiglia. La moglie Pietra Montecorvino, la cui voce rasposa accende la ninna nanna dedicata alla Luna e alla nipotina, e la figlia diciannovenne Eugenia, che ha chiesto di poter cantare Canzone per Beirut, «scritta nel 2007, dopo un concerto che tenni nella capitale libanese. Il brano riporta una frase che lessi su un manifesto affisso sui muri della città: “Can stop stars from shining, or Beirut from rising”», racconta il papà. «Mia figlia, scossa dalla guerra in Medio Oriente, dai bombardamenti, dai corpicini straziati dei bambini mi ha detto che le avrebbe fatto piacere cantarla». Una richiesta che ha reso orgoglioso papà Eugenio.
Dodici brani cantati utilizzando lingue diverse. Dodici canzoni che custodiscono l’essenza della musica popolare. World music e ritmi ancestrali che s’intrecciano con sonorità moderne e l’elettronica. Ma, soprattutto, dodici canzoni che raccontano, descrivono, denunciano, rivendicano, emozionano. Perché, lungo la strada di Galatina, «un tamburo risuona ancora anche se niente è più come prima e le catene gli vanno strette e gli basta poco per scatenarsi nella notte del giorno dopo».