– Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo un’opera che rivoluzionò la storia del rock
«Dio salvi la regina e il regime fascista. Ti rende cretino, una potenziale bomba H. Dio salvi la regina, lei non è una creatura umana. Non c’è futuro nel sogno inglese!». Giugno 1977: l’album Never mind the bullock era uscito appena in tempo per il Giubileo di Elisabetta II. In quella settimana di celebrazioni i Sex Pistols vendettero 200mila dischi. Più di tutti. Ma le classifiche li bloccarono al secondo posto. L’Inghilterra aveva paura dei demoni che evocava. Quei quattro ventenni rappresentavano il senso di colpa di un Paese snob, classista e xenofobo, che non si rassegnava a smettere i panni dell’impero. Eppure, per la prima volta la Gran Bretagna aveva dovuto chiedere un prestito al Fondo Monetario internazionale, il tasso di disoccupazione era il peggiore dal 1940 e la violenza per le strade macchiava di sangue i fiduciosi discorsi di Margaret Thatcher. Steve Jones, Sid Vicious, Paul Cook e Johnny Rotten incarnavano il caos che la premier voleva dissipare. La retorica della crisi fu asservita all’ironia, annunciarono l’apocalisse: «Nessun futuro per te, nessun futuro per me, nessun futuro per noi».
Never mind the bullock è un disco per certi versi monumentale, e contiene almeno tre canzoni che possono essere definite veri e propri inni generazionali: la già citata God Save The Queen e poi Anarchy In The Uk e Pretty Vacant.

«No future», nessun futuro, uno slogan semplice, immediato e diretto. Uno slogan che racchiude in sé tutto il senso di una musica, il punk, che arriva alla metà dei Settanta a dare un vigorosissimo scossone allo star system del rock. Nessun futuro, nessuna speranza, nessun desiderio: la generazione dei teenager che conquista la ribalta non è cresciuta con i sogni del decennio precedente, ma con la fine di quei sogni. Non vuole più cambiare il mondo, perché sa che il mondo non può essere cambiato e prova a gridare, con la rabbia, con l’oltraggio, con la violenza, la necessità del proprio esistere.
Johnny Lydon, detto poi Rotten, “marcio”, è l’incarnazione del punk. Più di Sid Vicious, che, prigioniero dell’estetica, non poté far altro che morirne. Con le sue litanie e il suo cantato rabbioso, ossessivo e alienato, Lydon è una delle più originali e riconoscibili voci della storia del rock: con la sua mimica e la sua gestualità, trasforma ogni esibizione del gruppo in un’esperienza estetica (positiva o negativa che sia). La novità di Rotten è che non racconta le proprie emozioni, ma le mette in scena in prima persona, le vive nella sua stessa mimica.
Il 1977 segna una nuova svolta epocale nella cultura giovanile: in Italia e in Europa prende le forme di una nuova ribellione politica, del terrorismo e dell’autonomia, dalle vecchie forze politiche; in Inghilterra e in America si trasforma in musica, in stile di vita, in aperta contestazione di ogni regola, diventa punk. È un nuovo fenomeno globale, ultima grande, storica, esplosione del rock: capelli cortissimi e colorati, spille da balia conficcate nelle guance, giubbotti di pelle e pantaloni stracciati, diventano la divisa di un nuovo esercito di giovani, disperati e ribelli, che non vogliono più confondersi con l’establishment, che vogliono vivere «fuori dalla società», come canterà Patti Smith.

Dopo il punk non ci sarebbe più stata un’era beat, ted, skin o mod. I movimenti giovanili erano finiti. Incominciavano le mille tribù del postmoderno. Il resto è mercato. Al pop e alla moda che agonizzavano, i punk regalarono il feticismo. Oggi sarebbero inconcepibili senza. La storia è piena di contraddizioni. «Al centro del sogno rock sta un registratore di cassa», si diceva. Ma un giorno i Sex Pistols che tiravano boccali addosso al pubblico durante i concerti e venivano applauditi a suon di sputi, diventarono rockstar. Così finisce la storia, ma ricomincia. Dal punk nacque quel grande affare chiamato new wave. Fatto da ragazzi che avevano imparato fin troppo bene la lezione della rivolta: «Ecco un accordo, ecco due accordi, tre accordi, ora formatevi il vostro gruppo».
Vivienne Westwood, nella cui boutique estremista “Sex” al 430 di King’s Road, nacque il nome dei Sex Pistols, che avrebbe dovuto promuovere appunto il marchio del proprio negozio, è diventata una delle icone dell’haute couture. Piccole etichette alternative, come la Virgin, sono diventate miliardarie grazie al punk. Malcom McLaren, il maitre a penser, è scappato con il bottino.
In fondo, però, il punk è sempre esistito, è qualcosa di connaturato al rock, è l’attitudine e la maschera, la rivolta e l’elettricità di una musica che non vuole essere condizionata da null’altro che da se stessa. Erano punk gli Who di My Generation, i Rolling Stones di Let It Bleed, i 13th Floor Elevator e i Kingsmen, i Pretty Things, gli Electric Prunes. Suoni duri e legati ai bassifondi, mescolati alla ruvidezza del far musica per bande giovanili, per sottoculture vivaci, per giovani alla ricerca di una identità. Quei giovani, tanti, che ancora oggi riempiono di musica i locali di Londra. Rabbiosi, ribelli, liberi, ancora sconosciuti, come lo erano i Sex Pistols nel 1977.