– Esce “Nivura spoken”, album “noir”, elettronico, del cantautore siciliano, basato su letture scelte da Rita Oberti, Sara Ardizzoni, Nada, Vera Di Lecce, Sarah ElkahlOut, Valentina Lupica
– «È un album nato durante la pandemia. C’è stato un momento in cui ho avuto un rifiuto nei confronti della chitarra: non riuscivo più a suonarla. Così ho cominciato a esplorare i sintetizzatori»
– «Tutte le ragazze coinvolte recitano nella loro lingua d’origine». Dalle montagne liguri alla pianura ferrarese, da Dante al “grico”, dal siciliano all’arabo della prima e unica rapper donna di Gaza
– «L’arte e la fede non possono lasciare le cose come stanno: le cambiano, le trasformano, le convertono, le muovono», riporta sui social, citando il discorso di Papa Francesco agli artisti
È un disco nato durante la pandemia, ispirato dagli astratti furori che quel periodo di forzata clausura ha scatenato in Cesare Basile. E a quel periodo buio che ha attraversato l’umanità con l’incubo del Covid sembra riportare una parte del titolo “Nivura”, nera. «Specchio della trama noir di questo lavoro», spiega l’autore. A creare queste ambientazioni cupe, nebbiose, sono sintetizzatori, suoni industriali, strumenti autocostruiti.
«Erano le mie prime esperienze con i sintetizzatori, la musica elettronica», racconta il “cuntastorie” siciliano. «È una passione che ho sviluppato proprio durante la pandemia. Soprattutto nei primi tempi del lockdown, io ho avuto un rifiuto fortissimo nei confronti della chitarra: non riuscivo più a suonarla. Così mi sono immerso in quel mondo che aveva già cominciato a incuriosirmi. E, in effetti, già nei primi mesi della pandemia, io ho pubblicato una raccolta di registrazioni, uscita solo online e ancora rintracciabile su Bandcamp sotto il titolo Cesare Basile: Pulicane tape. Quattro movimenti in cattività. Sono soltanto quattro pezzi, improvvisazioni che usavo per prendere familiarità con l’elettronica. Da lì è partita l’idea di lavorare a questo progetto».

Dal siciliano di “nivura” all’inglese di “spoken”, a dare una ampiezza internazionale a un progetto che scandaglia nelle origini dei suoi protagonisti. Ma, soprattutto, a indicare un genere: lo “spoken words”, termine che include qualsiasi tipo di lettura recitata ad alta voce, nella quale la parola è modellata dall’estetica del suono.
Nivura spoken, un titolo collage, come la copertina, sempre opera di Cesare Basile, che mette insieme immagini di attrici anni Trenta con etichette di dischi anni Sessanta e icone esotiche, condensando momenti del passato e del presente dell’artista siciliano. Un titolo che esprime anche la collegialità di questo lavoro, un mosaico di voci femminili.
«L’idea era proprio quella di realizzare quelle che gli americani chiamano “spoken words”», commenta Basile. «I brani sono stati costruiti sulle letture, non viceversa. Io ho lavorato sui testi nudi, così come loro me li avevano mandati. E su questo ho costruito tutta la tessitura sonora, spesso anche tagliandoli, allungandoli, ripetendoli. Ho usato le letture come punto di partenza, spesso gli “spoken” sono fatti su una base già pronta, io invece ho lavorato al contrario. Mi piaceva l’idea che fosse il ritmo della voce a suggerirmi il tono, la trama, lo spessore. È un disco costruito attorno alle voci».
Fatta eccezione del brano strumentale d’apertura, Nivura, dove è una chitarra a muoversi fra l’andatura di un carretto siciliano ed echi blues provenienti dal deserto, nelle altre sei tracce dell’album è la parola a salire in cattedra. Sono voci ancestrali quelle di Rita Oberti, Sara Ardizzoni, Nada, Vera Di Lecce, Sarah ElkahlOut, Valentina Lupica.

«Tutte recitano nella loro lingua d’origine», sottolinea Basile. «Ho chiesto loro di scegliere la lingua che volevano usare, quella che avvertivano più propria, quella nella quale sentivano di avere le radici, la prima lingua che ha raccontato loro il mondo, che spesso è quella dell’infanzia, che è la lingua della terra in cui cresci».
Rita Oberti, meglio nota con lo pseudonimo di Lilith, ex cantante dei Not Moving, ha scelto di usare il dialetto delle montagne liguri, della sua famiglia d’origine, per interpretare U me zogu cor diavru, liberamente adattata da Sympathy for the Devil dei Rolling Stones, con un sottofondo che mescola elettronica, suoni industriali e arabeschi mediorientali.
In Nisun al da na vos, ispirata da un brano di Byron sulla prigionia di Torquato Tasso a Ferrara tradotto in ferrarese da Matteo Bonazza, la voce di Sara Ardizzoni (Massimo Volume, Camminanti) su un ipnotico loop, fra lamenti lontani, sembra trasformarsi nel recitato di un coro da tragedia greca.
Nada Malanima sceglie l’italiano, d’altronde lei è toscana erede di Dante, per raccontare il suo Cosmo: “Com’è lontana la calda primavera” ripete come un mantra, facendo eco al Battiato di Povera patria, cantando con una voce deformata, demoniaca, spettrale che si alterna a un’altra più melodiosa, aumentando l’effetto distopico fra suoni industriali.

Con Vera Di Lecce, cantante, producer e performer salentina che si muove tra folk ed elettronica, si parla “grico” in Aremu rindinedda, un brano della tradizione della sua terra che si rinnova nel contrasto tra sintetizzatori e la voce ancestrale della cantante. Primordiale e futuristico.
Frustration, che è anche diventato un video, è il testo che Sarah ElkahlOut, prima e unica rapper donna della Striscia di Gaza, ha inviato dalla zona di guerra. Il suo è un grido di resistenza e un invito a non abbattersi mai: “Anche se tutti ti si mettono contro, lascia andare tutti, ma non rinunciare mai ai tuoi sogni. Lascia andare tutti, ma non rinunciare mai ai tuoi sogni. Mai. Ai tuoi sogni”.
«Sarah ha 18 anni e l’ho sentita una paio di giorni fa», racconta Basile. «Lei è ancora viva: è rifugiata in una stanza con altri venti persone sotto le bombe. Quattro anni fa, quando mi ha inviato la lettura, era ancora una ragazzina e aveva molte delle speranze che hanno tutte le adolescenti. Ora sembra invecchiata tantissimo, è piena di rancore e di odio. Credo per tanti ragazzini in Palestina questa tragedia è destinata a generare frutti molto brutti per il futuro».
Valentina Lupica è l’unica “non cantante” coinvolta nel progetto. È un’attrice di Mazzarino che ha vissuto a Catania prima di trasferirsi per lavoro a Torino, dove insegna. Ha mutuato per la lettura un brano preso da Occhi di Franco Scaldati, la maschera tragica di Palermo. S’intitola Nchiaccatu (impiccato) ed è recitato in dialetto siciliano.
Arte, impegno, cambiamento, sono alla base di questo progetto, una costante di tutti i lavori di Cesare Basile: tre concetti presenti nel discorso che Papa Francesco rivolse agli artisti riuniti nella Cappella il 23 giugno 2023: «L’arte e la fede non possono lasciare le cose come stanno: le cambiano, le trasformano, le convertono, le muovono». Discorso riportato dall’artista siciliano in un suo post sui social in occasione della scomparsa del Pontefice che è riuscito a conquistarsi l’attenzione anche dei non credenti.
«Pur non dimenticando cosa rappresenta la Chiesa cattolica e sappiamo che tipo di strumento di potere è stato nel corso dei secoli, spesso anche complice di violenze efferate, di sfruttamento, proprio per questo la figura di un Papa che comunque nel bene o nel male ha messo in discussione alcuni punti, ha riportato una visione cristiana più vicina all’evangelo che alle gerarchie: questo è importante», riflette Basile. «Certo, non si può pretendere da un Papa, qualunque sia, che faccia Che Guevara. Criticarlo in quanto Papa – come per dire: “Non ha fatto abbastanza” – non ha senso. Io credo che sia molto importante che all’interno di una struttura secolare così forte, sclerotica, come la Chiesa cattolica ci sia stata una presenza di tale tipo, che ha messo in atto dei processi, che probabilmente verranno affossati dai suoi successori. Io spero di no, spero che se si è spinta una molla verso il cambiamento, questa molla non smetta di vibrare».