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SAGRA SANREMO, brandacujun e canzonette

– La Città dei fiori non esiste, è un non-luogo, è l’immagine non di un Paese, ma di un paesone che aspetta la festa. Anche la nuova sigla di Gabry Ponte è da sagra paesana
– Cantanti-figuranti, frotte di giornalisti-cavallette e l’umanità più disparata per le strade della Città dei Fiori. «Sembra di stare a Roccaraso», sbotta Selvaggia Lucarelli
– Tony Effe regala maritozzi, Rose Villain apre un caffè, Achille Lauro offre drink di qualità, Sarah Toscano gelati. E Clara propone la Farmacia dell’Amore. I party delle radio 

Sanremo propriamente non esiste. Per l’amministrazione centrale, l’Istat e altri enti il nome ufficiale della città è San Remo. L’amministrazione comunale e la Rai preferiscono però la versione laica, senza “R” maiuscola e spazio. Quindi ogni logo del Festival – annualmente rinnovato seppur con obbligatorio effetto “riflettore illumina dall’alto” per far capire subito che siamo in tv – adotterà la forma tutta attaccata.

Un non-luogo

Anche San Remo, il santo, non esiste. Ovvero non c’è alcun Remo santo eponimo a fondare e proteggere la città. All’origine c’è però un Romolo, eremita in montagna. Un tempo si favoriva una derivazione del nome da Santo Eremo, l’interpretazione oggi più accreditata ricava invece San Remo da San Roemu, adattamento dialettale di Romolo.

Il Casinò di Sanremo

Perfino il figlio più famoso di Sanremo non esiste. Italo Calvino, infatti, non vi è nato e non vi è morto, preferendo Santiago de Las Vegas (L’Avana, Cuba) nel 1923 e Siena nel 1985. Tant’è che gli amministratori della città nel 2013 hanno scelto di celebrare con una statua non Italo Calvino ma Mike Bongiorno, nato a New York nel 1924 e morto nella vicina Montecarlo nel 2009, presentatore di ben undici edizioni del Festival.

E non esistono neppure i nuovi ricchi di Calvino (“Sanremo, città dell’oro”, 1946), “facce nuove, con nuove macchine e nuove amanti”, perché al Casinò non si gioca più con l’oro. Il salone delle feste ospita le slot machine e numerosi sono i sanremesi che “tentano la fortuna”, forse non con lo spirito del disoccupato aggrappato al gratta e vinci, ma certo non con quello del milionario annoiato. Lo sanno tutti qui. Lo sanno quelli che hanno visto il primato dei quattro casinò italiani – Sanremo, Venezia, Saint Vincent e Campione d’Italia, tutti al nord – cedere ai bar con i videopoker e alle mille altre forme di azzardo diffuso. 

Una nuova sigla da sagra

In questo scenario risalta ancor di più l’anomalia Sanremo, gara canora che non ha eguali al mondo, ancorata a una realtà provinciale da sagra paesana. Come viene anche sottolineato dal nuovo jingle commissionato da Carlo Conti, nuovo patròn di Sanremo, a quel gran genio di Gabry Ponte: una tarantella. Che fa rivoltare nella tomba il Pippo Caruso autore della sigla-tormentone “Perché Sanremo è Sanremo” e fa rimpiangere l’eleganza delle edizioni dirette da Pippo Baudo.

Il brandacujun, che non è una parolaccia ma un piatto sanremasco a base di stoccafisso mantecato con le patate

Brandacujun, che non è una parolaccia ma un piatto sanremasco a base di stoccafisso mantecato con le patate, e canzonette. La musica qui è soltanto la voce di una piccola provincia del mondo, altro che cittadina del mondo. Una manifestazione local, lontana dall’era global. Simbolo di un’Italia che non cresce. Un evento che, tuttavia, coinvolge l’intera industria musicale italiana, una media di dieci milioni di telespettatori (47,5% di share), tutti i mass media nazionali. Che resuscita atmosfere antiche, sapori tradizionali, passioni, sentimenti, polemiche, che il mondo virtuale tende ad appiattire. Che riscopre l’amarcord in un’epoca che ha accelerato i tempi di attenzione e accorciato la memoria. 

Se ne era occupato anche il grande Indro Montanelli dando una sua versione: «È incredibile – aveva scritto nel 1999 – che un’occasione di divertimento popolare diventi un evento nazionale. C’è chi protesta per questo. Io dico invece: è credibile solo se si accetta che l’Italia è questa. Non un Paese, ma un paesone che aspetta la sagra. Esistono evidentemente pulsioni che sono difficili da spiegare e vanno accettate: i tedeschi cantano in birreria, gli americani amano il rumore e le luci di Las Vegas, gli italiani guardano il Festival di Sanremo».

Sanremo come Roccaraso 

Come dare torto a Selvaggia Lucarelli. Appena sbarcata a Sanremo, dove sarà fra i commentatori del DopoFestival, ha sbottato: «Sembra di stare a Roccaraso». Una cittadina di 50mila abitanti che in questi sette giorni raddoppiano, concentrandosi attorno al Teatro Ariston, in corso Matteotti e nei ristoranti del centro storico.

Via Matteotti vista dalla terrazza del Teatro Ariston

Ci sono i cantanti. Che dovrebbero essere i protagonisti, ma che sembrano figuranti generici. E le canzoni sono optional. Eppure, tutti ci sperano. Ci sperano i virgulti canori, arruolati per far numero sul palco dell’Ariston. Ci sperano i bolliti in disarmo, persi nelle hall degli alberghi, l’occhio vigile in cerca d’un giornalista pietoso e disposto a intervistarli. Di speranza in speranza, si arriva ai casi umani. Sanremo è l’ultima spiaggia di chi vuole uscire dal Limbo. È, tuttavia, certo che un passaggio sul palco dell’Ariston assicura un anno di apparizioni tv, interviste radiofoniche e web e qualche concerto in piazza.

Poi, a parte le maestranze della Rai, che deve dimostrare ancor più quest’anno di essere l’unica televisione capace di organizzare un evento simile, l’altra presenza massiccia in riviera è quella dei mass media. Fotografi, cameramen, giornalisti o pseudo-tali con contratto da metalmeccanico mettono in bella mostra il pass, simbolo di potere, cercando di portare a casa l’intervista e un selfie con chiunque sia. I giornalisti quelli veri, quelli che ci campano con questo mestiere (citazione Vittorio Zucconi) stanno rintanati nel Bronx della sala stampa. Loro non rincorrono, sono rincorsi. C’è il p.r. complice, che sussurra all’orecchio le grandi notizie. Peccato che le grandi notizie riguardino personaggi come Olly, o Joan Thiele, o Fedez se vogliamo concederci una botta di grandeur.

Una volta contavano i cantanti e qui nascevano le canzoni di massimo successo. Dietro le quinte sbocciavano o si consolidavano amori, Pizzi e Togliani, Latilla e Sanson’s, e scoppiavano litigi, tra due amatissimi, Claudio Villa e il suo rivale Luciano Taioli. Brillavano nuove inimitabili star, Adriano Celentano con 24 mila baci nel ’61, la allora quindicenne Gigliola Cinquetti, con Non ho l’età nel ’64 e quella che sarebbe diventata una donna raffinata, una cantante e un’attrice di prestigio internazionale, Milva, che quando nel ’61 apparve a Sanremo tutta vestita d’oro per cantare “Il mare nel cassetto” era una ragazzona piuttosto incolta e spaventata. Allora i giornali dedicavano un breve articolo all’evento: oggi l’informazione di ogni tipo non sembra occuparsi d’altro: per dire che il Festival è brutto, non basterebbe meno spazio?

Le “occasioni conviviali”

Poi ci sono le truppe cammellate della discografia in crisi che si scatenano in una feroce rincorsa allo spazio sui mass media. Va di moda l'”occasione conviviale”: un drink di qualità nella R.M. Confidential di Achille Lauro? Un invito nella “Stanza fiorita Lego” di Francesca Michielin? Un “alproccino”, «caffè dolce-amaro come me» al (Rose) Villain Cafè in via Carli 6? O un cono alla Gelateria Amarcord, spazio speciale dedicato a Sarah Toscano? Oppure un maritozzo con Tony Effe al chiosco di street food romano Damme Da Magnà, con un menù curato dallo chef romano Ruben Bondì? E, in caso di crisi di nervi o astinenza sessuale, si può correre alla Farmacia dell’Amore di Clara. 

E che dire dei festaioli? Nel regno dell’apparire (preferibilmente in tv), nel Far West dei duelli per un posto al sole sui giornali, c’è chi preferisce la radio. O meglio, le radio, le mille emittenti d’Italia. Non può mancare, in apertura della settimana sanremese, il party di qualche radio nazionale al Victory Morgana, locale alla moda della città dei fiori, con la passerella dei vip per autografi e selfie. Molto ambito, soprattutto per il food. Perché dovete sapere che per gran parte dei giornalisti, soprattutto quelli che stanno a Sanremo a spese proprie, il cibo è l’obiettivo principale. Come cavallette, quando passano loro, razzolano tutto.

Sempre Tony Effe la sera dà appuntamento al Tony’s Club in via Camillo Benso Conte di Cavour 19, un locale che diventerà il cuore pulsante di incontri e serate con amici e addetti ai lavori. Il locale, curato nei minimi dettagli con riferimenti alla Roma by night degli anni Settanta, avrà un’atmosfera intima e un mix di musica, arte e stile che riflettono la personalità dell’artista.

Il cappon magro

I più dediti al lavoro frequenteranno gli store che alcune etichette discografiche hanno aperto quest’anno nella speranza di vendere qualche disco, vinile o cd che sia, e soprattutto merchandising. È il caso della Sony con il suo “Music store & more” di 150 mq che accoglieranno shop, aree entertainment e multimediali, attività ed eventi, imitata dalla Universal con “Universo Dischi”, negozio multifunzionale dedicato alla musica: i visitatori potranno scoprire i prodotti speciali ed esclusivi degli artisti in gara, trovare una vasta selezione di titoli di recenti successi italiani targati Universal Music, ma anche partecipare a esperienze esclusive. Cosa siano queste esperienze esclusive è tutto da scoprire.

E ancora artisti di strada, sosia, predicatori, forze di polizia in passerella, metal detector, stagisti, parrucchieri, truccatori, stilisti, bodyguard, navi da crociera, servizi di sicurezza, mitomani, chef, sponsor, turisti, imbucati, curiosi, premi, premiati e il variegato pubblico che paga dai 110 fino a 730 euro per stare seduto oltre quattro ore sulle poltrone rosse dell’Ariston.

Non è successo niente

Sanremo è un non luogo, come Disneyland, come Las Vegas, come i villaggi vacanze. E il non-luogo è questione di sguardo. Uno spazio, per dirla con Marc Auge, in cui colui che lo attraversa non può leggere nulla né della sua identità, né dei suoi rapporti con gli altri. Uno spazio dove si mette in scena una storia, e se ne fa spettacolo, de-realizzando la realtà. In parole povere: qui non è successo niente. Si trascorre una settimana in un villaggio vacanze con animatori entusiasti e un po’ invadenti, come tutti gli animatori dei villaggi. 

Di questa vacanza resterà – come d’ogni vacanza – qualche foto ricordo, da mostrare sempre più sbiadita ad annoiati colleghi d’ufficio o agli amici. Poi, tra un po’ di anni, capiterà forse di domandarsi, in certi momenti oziosi: ma quel Festival del 2025 com’è stato? Cos’è stato? Chi ha vinto? 

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