– Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo un capolavoro nascosto, riscoperto da generazioni di musicisti e appassionati: diario sonoro di una donna che cerca di ricostruirsi dopo la fine della storia d’amore con Tom Waits
Rickie Lee Jones si definisce troubadour più che cantautrice. Una cantastorie che, con la chitarra in mano, gira contrada per contrada raccontando in musica storie fantastiche, a volte terribili, a volte meravigliose. Storie che possono essere un miscuglio di verità e finzione, parabole evangeliche o leggende metropolitane. Le storie, i personaggi e le ambientazioni sono l’ossatura delle canzoni e degli album di Rickie Lee Jones, e il suono, gli accordi, gli arrangiamenti sono una specie di scenografia, i colori vivaci sulle grandi tavole dipinte che gli antichi cantastorie portavano con sé nelle fiere.
Le copertine di Rolling Stone, i grandi tour e la sofferta storia d’amore con Tom Waits sono solo dei dettagli che lei affronta qua e là in una narrazione frastagliata che è soprattutto un tentativo di riallacciarsi alle sue radici familiari e culturali. Come in Pirates, il suo secondo album, uscito nel 1981. Un lavoro nel quale parla della vita in modo cinematico, esaltando l’inquietudine dell’esistenza come avevano fatto altri beatnick come Jack Kerouac e Tom Waits, usando un linguaggio a metà strada tra la poesia e il jazz, perché solo in questo modo riesce a tenere in bilico il reale e il fantastico delle sue storie. Le canzoni della ragazza di Venice sfuggono all’interpretazione usata per altri cantautori. Sono complesse, quasi intraducibili, mischiano continuamente in una sequenza semi-delirante l’elemento autobiografico con il riferimento letterario.
Un album autobiografico

Pirates è, in molti sensi, il diario sonoro di una donna che cerca di ricostruirsi dopo la fine di un amore e di una fase della propria vita. La rottura con Tom Waits, suo compagno e spirito affine nella scena bohemienne losangelina, aleggia come un fantasma tra le tracce dell’album. Ma non è un disco triste: è un’opera di trasformazione, malinconica e vibrante, fatta di viaggi — fisici ed emotivi — tra le strade di New York e quelle dell’anima.
È prosa a presa diretta, da leggere tutto d’un fiato, ricavando una sensazione fisica della vita, una corsa tormentata attraverso la gioia e la disperazione. La sua filosofia della vita si basa sul rimpianto degli anni passati e sulla continua fuga, alla ricerca di un posto migliore, anche se il tutto possiede una nota di amarezza nell’accorgersi che ciò da cui sfugge, alla fine, è solo se stessa.

E, d’altronde, non ci si poteva aspettare altro da una ragazza che ha passato la gioventù a scappare da casa, dalla miseria e dalla disperazione. Una ragazza che ha lottato duramente, attraverso decine di notti insonni trascorse in qualche squallido locale, meta di pochi disperati, a suonare la propria angoscia in compagnia di Tom Waits.
I suoi racconti sono popolati di personaggi che si credono James Dean, che hanno lo sguardo languido di Frank Sinatra e la grinta di Marlon Brando e Paul Newman. Ma, in realtà, è tutta gente che cerca di emergere in qualunque modo dallo squallore che li circonda e che ci circonda.
Difficile definire Rickie Lee Jones una folksinger. Oppure l’ultima poetessa della beat generation. Genio e sregolatezza sono ancora una volta coordinate credibili per accedere al suo mondo: il suo spontaneo eclettismo è necessità d’espressione. Nessuna sorpresa allora se l’ingenuo berretto rosso della beatnick del 1979 si sia trasformato nei pizzi e nel nero della Rickie Lee Jones di Pirates. Né meraviglia se, nei suoi testi, troviamo la convinzione che tutti siamo predestinati, che il nostro futuro è in qualche modo già scritto e che nessuno può cambiarlo. Ecco, quindi, che i pirati sono visti come i risolutori di ogni problema e bisogna aspettarli con ansia: “…sto solo cercando di divertirmi mentre aspetto che vengano i pirati a portarmi via”.
Le tracce più importanti

Rickie Lee Jones nasce nel 1954, vagabonda nell’ovest per qualche anno. Poi diventa amica dei santi untuosi e nottambuli della bassa California, Los Angeles e dintorni. Infine, schiva e misteriosa, artista del Greenwich Village. Ha dimestichezza con la chitarra ed il piano, ma è soprattutto con la sua voce densa di espressione che raggiunge il cuore. Come quando parla di sé e di Tom Waits in We can be together (è lei la donna adagiata sul cofano della macchina nella cover interna di Blue Valentine, disco di Waits del 1978) o quando canta il lato jazz della vita, spolverando Stax e Sun Record in Woody and Dutch on the slow train to Peking.
La title track, Pirates (So Long Lonely Avenue) , è quasi un mini-film: una narrazione teatrale che unisce immagini liriche, cambi di tempo e momenti di pura improvvisazione musicale. C’è malumore e tragedia in Skeletons, nella quale vita e morte si alternano in un balletto che ammonisce sulla relatività delle cose e c’è il delirio poetico nella lunga Traces of Western Slopes, una narrazione teatrale che unisce immagini liriche, cambi di tempo e momenti di pura improvvisazione musicale.
All’epoca della sua uscita, l’album fu accolto con entusiasmo dalla critica ma rimase un oggetto di culto più che un successo di massa. Rolling Stone lo definì «il più impressionante secondo album dai tempi di The Band», mentre The New York Times lo lodò per la sua «audacia emotiva e musicale».
Negli anni, Pirates ha acquisito lo status di capolavoro nascosto, riscoperto da generazioni di musicisti e appassionati. Artisti come Tori Amos, Fiona Apple e Norah Jones hanno citato Rickie Lee Jones come una delle loro principali fonti di ispirazione.