– Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo un’opera che negli anni Novanta ha ridefinito i confini della musica popolare
Nel panorama musicale degli anni Novanta, poche opere sono riuscite a catturare l’immaginario collettivo con la stessa forza e profondità di Dummy, l’album di debutto dei Portishead, pubblicato nel 1994. Questo disco non solo ha segnato la nascita di uno dei gruppi più innovativi della scena musicale britannica, ma ha anche definito i contorni del genere trip hop, un’incubatrice sonora che mescolava elementi di hip hop, jazz, elettronica e musica ambientale. A distanza di oltre due decenni dalla sua uscita, Dummy continua a essere una pietra miliare della musica contemporanea, un’opera che ha influito su una miriade di artisti e ha dato forma a un’intera generazione musicale.
La genesi di un capolavoro
La storia di Dummy inizia nei sobborghi di Bristol, una città che in quegli anni stava vivendo una fioritura culturale e musicale. I Portishead si formano nel 1991 da una collaborazione tra il produttore Geoff Barrow, la cantante Beth Gibbons e il chitarrista Adrian Utley. Il nome della band, preso dal quartiere di Portishead, a nord di Bristol, si rivelò ben presto un presagio di ciò che sarebbe stato il loro suono: oscuro, inquietante e, al contempo, estremamente raffinato.

Barrow, che aveva lavorato come assistente in uno studio di registrazione, si distinse subito per la sua abilità nel mescolare diverse influenze musicali. Dopo aver incontrato Gibbons, il cui talento vocale e la sua attitudine introspettiva avrebbero dominato l’album, i due cominciarono a collaborare. Il suono che ne nacque univa il beatmaking tipico dell’hip hop con le atmosfere sognanti e inquietanti dell’elettronica, il tutto arricchito dalle melodie malinconiche di Gibbons.
Durante le registrazioni di Dummy, la band lavorò in uno studio lo-fi, lontano dalle luci dei riflettori e dalle pressioni dell’industria musicale. Questo approccio non convenzionale si rifletteva nel suono grezzo e autentico dell’album, che combinava sonorità vintage con le innovazioni sonore degli anni ‘90. Il risultato fu un disco che suonava come un’istantanea della mente di una generazione, sospesa tra il torpore delle notti urbane e la malinconia di una realtà in rapido cambiamento.
L’inconfondibile suono di “Dummy”
Quando Dummy venne rilasciato nell’aprile del 1994, il pubblico fu subito rapito dalla sua unicità. Il disco si apre con Mysterons, una traccia che incarna perfettamente l’anima del progetto: una melodia lenta e avvolgente, accompagnata dalla voce eterea di Gibbons, mentre il beat elettronico di Barrow pulsa in sottofondo. La canzone, che prende il nome da una delle tracce dei The Shadows, una band degli anni Sessanta, si muoveva tra il dub e l’ambient, anticipando la direzione del disco.
Il brano successivo, Sour Times, divenne una delle canzoni più iconiche della band. Con il suo ritmo ipnotico e l’atmosfera di suspense che si sviluppa progressivamente, esplora temi di paranoia e disillusione, mentre la voce di Gibbons emerge come una sorta di canto funebre, triste ma affascinante. La frase “Nobody loves me, it’s true” diventa un mantra esistenziale, che rende la canzone ancora più potente e universale nella sua introspezione emotiva.
E poi c’è l’iconica Roads, nella quale Beth Gibbons sembra suonare la sirena. O, meglio, sta avvisando sulla pericolosa futilità di tentare di mappare il proprio futuro, della mentalità “fai perché è giusto e tutti gli altri lo fanno” che lascia le persone perse, confuse, isolate e alienate. Il pianoforte di Rhodes introduce un grido di sconfitta accettata che saluta l’ascoltatore sin dalla prima strofa, con Gibbons che sussurra: “Oh, nessuno può vedere? / Abbiamo una guerra da combattere / Non abbiamo mai trovato la nostra strada / Indipendentemente da quello che dicono».
Nel mirino ci sono gli ideali di una vita “perfetta”. E Gibbons sta indicando che la mappa non è priva di difetti. Sono state costruite nuove strade, vecchie strade ricoperte di vegetazione e alcune strade sono impraticabili per alcuni viaggiatori. Le note persistenti e lacrimose del chitarrista Adrian Utley comunicano un’incertezza pensierosa chiara come i testi di Gibbons.
Una delle caratteristiche distintive di Dummy è la sua capacità di mescolare generi musicali diversi. In brani come Strangers e Glory Box, i Portishead fondono jazz, soul e elettronica, creando un sound cinematografico che evoca immagini di film noir e di paesaggi urbani notturni. La sezione ritmica, che in molte canzoni assume una funzione quasi ipnotica, è accompagnata da arrangiamenti di archi che sembrano provenire da un altro tempo, accentuando la sensazione di una modernità malinconica e decadente.
Dummy si distingue anche per l’uso della tecnologia, non solo come strumento di produzione musicale, ma anche come linguaggio. I campionamenti sono utilizzati con maestria per dare una sensazione di qualcosa di familiare e allo stesso tempo alienante. L’uso dei campioni di vinile e la distorsione dei suoni permettono ai Portishead di costruire un’atmosfera che suona senza tempo, come se l’album provenisse da una dimensione parallela, sospesa tra passato e futuro.
L’impatto culturale
Nel 1994 la musica elettronica era già ben consolidata, ma la scena musicale era dominata principalmente da generi come il grunge, il britpop e la dance. I Portishead, insieme a gruppi come Massive Attack e Tricky, contribuirono a dare forma al fenomeno del trip hop, un genere che, pur essendo nato a Bristol, si diffuse rapidamente in tutto il mondo. Il trip hop era una musica da ascoltare di notte, una colonna sonora per chi viveva la frenesia urbana e sentiva il bisogno di un rifugio sonoro intimo e personale.

La critica accolse con favore Dummy, che venne descritto come un’opera che ridefiniva i confini della musica popolare. L’album conquistò il pubblico per la sua capacità di miscelare emozioni crude e brutali con una produzione elegante e sofisticata. Non era solo un disco, ma un’esperienza sensoriale che coinvolgeva l’ascoltatore in un mondo sonoro unico, fatto di tensione, introspezione e bellezza.
Il successo di Dummy non si limitò ai confini del Regno Unito. Il disco ottenne consensi internazionali e venne premiato con il prestigioso Mercury Music Prize nel 1995, consolidando la posizione dei Portishead come una delle band più importanti degli anni ‘90. La voce di Beth Gibbons, con la sua qualità vellutata ma dolorosa, divenne il simbolo della fragilità e della solitudine, mentre la musica del gruppo divenne la colonna sonora ideale per chi cercava una via di fuga dalla realtà.
A oltre vent’anni dalla sua uscita, Dummy continua a essere considerato uno degli album più influenti degli anni ‘90 e uno dei dischi più significativi della musica elettronica. Nonostante i cambiamenti radicali nel panorama musicale, il disco dei Portishead mantiene ancora oggi la sua forza. La sua capacità di mescolare elementi del passato con quelli del presente è uno degli aspetti che lo rende senza tempo, e la sua influenza si può sentire in una vasta gamma di artisti che spaziano dall’indie al rap, passando per l’elettronica.