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Playlist #110. Neil Young, The Cure, Coez

– I segnali sonori più interessanti della settimana. Nuova band, Chrome Hearts , e nuovo disco per il cantautore canadese preoccupato dalle sorti dell’America e del suo focolare domestico. “Mixes of a Lost World” è un’espansione ritmica del regno oscuro dei Cure nel mondo della dance. Lo straordinario debutto di Annahstasia
– L’indie rock dei Comet Gain vira verso i Dexys Midnight Runners, l’inquietante post-punk dei Lifeguard. Generazioni a confronto nel progetto “Thruppi”. Il newpolitansound diventa una suite cinematografica con Marcello Giannini. Operazione nostalgia di Coez in “1998”. King Gizzard & the Lizard Wizard giullari alla corte del rock

“TALKIN TO THE TREES”, NEIL YOUNG

Quando la scorsa estate Neil Young ha interrotto il tour con i Crazy Horse – a causa, in seguito è emerso, dell’esaurimento – avresti potuto pensare a una conseguenza della irrequietezza e della iperattivtà dell’artista ormai sulla soglia degli 80 anni (li compirà il prossimo 12 novembre). Nulla di male se avesse finalmente deciso di rallentare. Solo pochi mesi dopo, Young ha annunciato la nuova band, i Chrome Hearts, che forse per coincidenza condividono le stesse iniziali dei loro illustri antenati. I Chrome Hearts sono diventati gli ultimi alleati creativi di Young, salvandolo da un periodo di blocco dello scrittore per produrre Talkin To The Trees, album in uscita oggi.

Le prime due tracce rilasciate presentavano Young in piena modalità di combattimento: Big Change, pubblicata giorni prima che Trump prestasse giuramento come presidente per la seconda volta, ora assomiglia a niente di meno che una cupa profezia, ululata su muri di chitarre ruggenti; Let’s Roll Again, un inno per veicoli elettrici modellato su This Land Is Your Land di Woody Guthrie, prende di mira Elon Musk: «Se sei un fascista, allora prendi una Tesla». 

Invece, il resto dell’album vede il cantautore d’origine canadese preoccupato per le questioni più vicine a casa. Family Life inizia come un discorso acustico dal cuore aperto ai suoi figli, fino a un riferimento stridente ai suoi nipoti, «che non riesco a vedere». Segue Dark Mirage, riferita a un litigio con sua figlia Amber Jean, dopo la morte di sua madre Pegi Young nel 2019. L’umore cambia con First Fire Of Winter, un inno alla felicità domestica in Colorado con Daryl Hannah e la prima di tre splendide tracce country dell’album, modellato sullo stile di Helpless

“MIXES OF A LOST WORLD”, THE CURE

La bellezza di Songs of a Lost World non era che fosse la dimostrazione che i Cure c’erano ancora ed erano vivi, ma erano tutte tonalità meravigliose del costante senso di premonizione della band. Con questo lavoro Lost World riprende, trincerato nella foschia dell’ambiguità che non manca mai di trascinarci nel suo rapimento, riconoscendo la familiarità senza sentirsi troppo vicino a un’ombra del suo precedente. Mixes of a Lost World sembra un passo del tutto atteso, per mettere in evidenza tutte le parole perdute di Lost World in uno splendente technicolor. E questo significa indagare le profondità dei diversi parametri della musica da ballo, dando a Lost World una seconda vita che va oltre le pareti del materiale di partenza. Come ha spiegato Smith: «Subito dopo Natale, mi sono stati inviati un paio di remix non richiesti di brani di Songs of a Lost World e li ho davvero amati. The Cure ha una storia colorata con tutti i tipi di musica dance, ed ero curioso di sapere come l’intero album avrebbe suonato interamente reinterpretato dagli altri».

Forse la stella qui è la versione di Chino Moreno dei Deftones su Warsong, non solo per quanto faccia sentire più oscura la traccia, ma anche perché le sue cadenze ritmiche aggiunte e le note pulsanti perforano il significato, dandogli una rilevanza più aperta al clima politico di oggi e a tutti i modi in cui il conflitto umano lo sta affrontando.

“LETTERS TO ORDINARY OUTSIDERS”, COMET GAIN

Con una storia che risale a oltre trent’anni fa, Comet Gain ha cementato il suo status di istituzione indie rock. A differenza della maggior parte dei gruppi che raggiungono quella pianura, non hanno assolutamente alcun interesse a stare fermi o a ripetersi. Un modo in cui si mantengono in movimento è lavorare con un produttore diverso su ogni album. Questa volta hanno collaborato con Sean Read, un compagno di lunga data sia di Kevin Rowland che di Edwyn Collins. Lui e il gruppo hanno deciso di rendere Letters to Ordinary Outsiders l’album più lussureggiante e musicalmente complesso che la band abbia pubblicato. 

Aggiunti al loro solito nucleo di chitarra, basso, batteria e tasti ci sono fiati, sintetizzatori, pianoforte elettrico, e, in un divertente cenno ai Dexys Midnight Runners, molte canzoni vengono introdotte da Read e dai membri della band hanno con scambi spiritosi di dialoghi. Diversi momenti ricordano i dischi successivi la prima incarnazione del gruppo negli anni ’90, ma i testi e le esibizioni sono intrisi di molta più disperazione e saggezza. Non sarebbero Comet Gain senza quei due fattori presenti in dosi massicce, e quasi ogni canzone qui – a parte l’esilarante Threads! ispirata all’autunno – trasmette impulsi emotivi selvaggi, strappa i cuori con una sanguinosa malinconia e serve come una chiamata alle armi per i veri credenti. 

“RIPPED AND TORN”, LIFEGUARD

Cinque anni dopo il loro EP di debutto e due anni dopo aver firmato con la Matador Records, Ripped and Torn segna il debutto completo del rumoroso trio di Chicago. Dissonante, imprevedibile, vede il gruppo espandersi su una rete di influenze stilistiche che vanno dal noise-rock al punk. L’album inizia con un muro pulsante di rumore su A Tightwire, il cui ritmo di corsa, accordi agitati e piatti che si schiantano sono accompagnati da lamentele cantate e gridate per metà incomprensibili. It Will Get Worse è un bop di tipo Ramones carico di “oh-oh”. Canzoni come (I Wanna) Break Out di meno di due minuti e la più distaccata e impassibile Like You’ll Lose approfondiscono un post-punk più inquietante. 

Le dodici tracce di Ripped and Torn. Per un totale di 30 minuti, sono intervallate da esperimenti di rumore più brevi come il feedback strillante di Music for 3 Drums e Charlie’s Vox, che potrebbe essere descritto come una sorta di lavatrice noise-rock. Le armonie vocali appaiono in modo più appariscente su Ripped + Torn, una title track intrisa di psych pop degli anni ‘60. L’album è immerso in una oscurità lo-fi ritenuta imperativa dalle canzoni stesse. 

“THRUPPI”, THRUPPI

Due generazioni a confronto. Una mappa sonora e sentimentale di Napoli. Un disco ma anche un laboratorio aperto. È THRUPPI, l’omonimo album del progetto che unisce Giovanni Truppi e alcuni componenti di Thru Collected. L’artista e il collettivo napoletano si sono prima trovati in modo casuale e istintivo e poi scelti per affinità di spirito e comunanza di vedute. Sette brani nati da un processo creativo condiviso che raccontano un incontro, un tempo, due generazioni vicine. Unendo con disinvoltura cantautorato, spoken word e rap, il disco intreccia melodie delicate, cori stratificati e tappeti di synth con sonorità indie rock ed elettroniche attraversando momenti noise, punk, distorti e dissonanti. Il risultato è un’opera iper-contemporanea e ibrida dove i generi si contaminano e si dissolvono uno nell’altro.

Un progetto che è la perfetta somma delle parti che lo compongono, dove non ci sono primi attori, dove le esperienze e le influenze di tutti i componenti di Thruppi convivono insieme. I testi, scritti a quattro o sei mani, intrecciano italiano e napoletano e riescono ad afferrare l’infinitamente piccolo rendendolo immediato, dirompente, a tratti schiacciante.

Canzoni intimamente universali, che parlano con la potenza di una semplicità asciutta, che rifugge ogni retorica, del diventare grandi entrando in un gioco pesante in cui vengono mosse pedine gigantesche (Napoli città di morte), della sfida faticosa e amara del crescere, in cui spesso un bel cazzo di niente la vita ti ha lasciato e tu pensi di stare vincendo la gara con tuo padre facendo quello che lui non è riuscito a fare e solo più tardi ti accorgi che anche adesso che è morto è così che continua a comandarti (Vecchie Fiamme).

“1998”, COEZ

Il settimo album in studio di Coez è un disco che attinge dalle sonorità e dall’immaginario degli anni ‘90, ispirandosi alla musica e ai racconti che hanno accompagnato l’adolescenza del cantautore. Coez ritorna alle origini per dare inizio a un nuovo viaggio introspettivo attraverso lo stile che lo ha reso un punto di riferimento nel cantautorato italiano contemporaneo: una fusione di intimità e malinconia, con influenze pop e urban.

Quello che un po’ stona ascoltando 1998  è che da quel famoso 2017 il mondo è cambiato molto. Banalmente, sono passati otto anni. Sia per l’artista – al secolo Silvano Albanese, classe 1983 – sia per gli ascoltatori. Eppure, poco è cambiato nell’opera di Coez. I fan che ascoltavano con trasporto Amami o faccio un casino, incastrati nella fine dei loro vent’anni, ora sono cresciuti. Ma premono play, per sentire nelle cuffiette le melodie di Mal di te o di Ti manca l’aria, e tutto pare lo stesso, gattopardescamente giovanile. L’operazione di 1998d’altronde mira evidentemente anche a questo: cavalcare il tema della nostalgia (il sentimento del nostro tempo) nei confronti di una gioventù che fu.

“CINEMA BRAZIL”, MARCELLO GIANNINI

Nove musicisti, nove movimenti, una suite. Più che un disco, un percorso ai confini dell’esperienza. Un’iniziativa unica nel suo genere per Marcello Giannini, il chitarrista napoletano noto per il suo lavoro con Nu Genea, Flo, Guru, Psychè, Slivovitz, Arduo. Cinema Brazil è un lavoro visionario, denso di atmosfere cinematiche, stratificazioni sonore e ricerca timbrica. 

Al centro c’è un’idea melodica essenziale: le note Mi, Fa#, Re e Do#, accompagnate da un ostinato in 5/8 che serpeggia tra le tracce, come un filo conduttore che guida l’ascoltatore attraverso un universo sonoro ricco di dettagli. Eppure, il disco non è mai statico: il tema si ripete e si trasforma, con strumenti e arrangiamenti che ne esplorano le possibilità espressive. In alcuni momenti la composizione si avvicina alla forma canzone, con voce, vibrafono e violini che ripetono la melodia mentre gli altri strumenti rispondono in un gioco di tensione e rilascio. In altri, il brano si apre a scenari più ampi: la batteria si fa leggera, accennando un jazz waltz che richiama atmosfere rarefatte, mentre una chitarra dal sapore western introduce suggestioni morriconiane. Il pianoforte, inizialmente protagonista, cede il tema alla voce e agli archi, fino a ricondurre l’ascoltatore all’ostinato iniziale, che nel finale prepara il passaggio al movimento successivo.

Il titolo evoca un mondo astratto, un film immaginario fatto di suoni, intuizioni elettriche e pulsazioni profonde. In bilico tra sperimentazione, groove urbano e derive psichedeliche, Marcello Giannini costruisce paesaggi sonori che si muovono liberi da ogni etichetta di genere, esplorando il confine tra composizione e improvvisazione.

“PHANTOM ISLAND”, KING GIZZARD & THE LIZARD WIZARD

Archi, corni e legni aggiungono un tocco di fanfara regale al ventisettesimo album in studio dei King Gizzard & the Lizard Wizard, riaffermando il loro status congiunto di giullari della corte rock e reali della jam-band. Il sestetto australiano ha dato alle stampe un album di soft rock uber-psichedelico guarnito con disco, prog e fioriture folk. È assurdo, orchestrale e tipicamente avventuroso, ma anche più “introverso” del solito, dice il cantante-chitarrista Stu Mackenzie.

“TETHER”, ANNAHSTASIA

I debutti raramente suonano così composti, audaci e decisamente intensi come Tether. Dopo anni di artigianato, esplorazione e tumulto industriale, la cantautrice ha arruolato produttori del calibro di Frank Ocean, ANOHNI e Moses Sumney per un disco che condivide gli istinti pop di quegli artisti, così come il loro nervo d’acciaio, infilando la loro arte in composizioni che vanno da lamenti popolari a momenti gotici come Believer.

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