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Playlist #100. Elton John torna a brillare

– I segnali sonori più interessanti della settimana. “Who Believes in Angels?” ci riporta un “Rocket man” ai suoi livelli migliori: le ambiziose strutture delle canzoni, i testi e gli arrangiamenti analogici lussuosi evocano il suo sfarzo degli anni Settanta
– L’altra sorpresa arriva dalla Sicilia con l’emozionante e intenso racconto sonoro e letterario di Beatrice Campisi intitolato “L’ultima lucciola”, nato dalla lettura di un celebre articolo di Pier Paolo Pasolini
–  Il concept-album dei Waterboys per ricordare l’attore Dennis Hopper con la partecipazione di ospiti del calibro di Steve Earle, Bruce Springsteen e Fiona Apple. Il folk leggero dei britannici Black Country, New Road
– Miley Cyrus annuncia una nuova svolta con tre singoli, uno diverso dall’altro, anticipazione di “Something Beautiful”. I Calibro 35 ci risucchiano in una tipica domenica pomeriggio degli anni Ottanta, fra schedine del totocalcio da controllare
–  Danzón El Gato catturano l’essenza di Madrid. Labasco in “Napoli Melancholia” mette in contrasto iconografia tradizionale meridionale e un’estetica sfrontata e contemporanea. Il nuovo singolo delle Wet Leg. “Homage” di Joe Lovano

WHO BELIEVES IN ANGELS?”, ELTON JOHN & BRANDI CARLILE

Prima ancora che Elton John abbia cantato una nota nel suo album in studio numero 37, Who Believes in Angels?, lo spirito dei suoi fan sarà alle stelle. Il preludio lento di due minuti alla traccia di apertura, The Rose of Laura Nyro, è pieno di caldi suoni analogici di synth e organo che esplodono in una chitarra solista, batteria elegantemente spaziata e armonie dense, prima di ritirarsi per accordi di pianoforte splendidamente vocali. Il mio primo pensiero va a Hello Yellow Brick Road, con la sensazionale apertura di Funeral for a Friend. La canzone migliora con ogni strofa e ritornello che si dispiegano, un’epica tentacolare di Elton con il tono di una ballata emozionante e la spinta energica di un rocker mid-tempo roboante. Testi gloriosamente sovraccarichi che celebrano una cantautrice queer ingiustamente dimenticata. Nel finale la canzone sale di un’altra marcia, con il pianoforte di Elton che si lancia in una coda ruggente con venature gospel mentre condivide interiezioni vocali improvvisate con la sua sensazionale partner Brandi Carlile, una voce spettacolare paragonabile a Emmylou Harris che canta Roy Orbison. Come artista gay dichiarata, è stata un’amica intima di Elton per decenni e la superstar settantottenne sembra aver affrontato questo progetto collaborativo post-pensionamento come un’opportunità per promuovere il talento di Carlile nel resto del mondo.

Ma l’album è in gran parte un omaggio di Brandi a Elton, non viceversa. È chiaramente una grande fan (Carlile era solita cantare le canzoni di Elton in costume completo ai talent show da bambina) e le ambiziose strutture delle canzoni, i testi e gli arrangiamenti analogici lussuosi evocano tutti Elton nel suo sfarzo degli anni Settanta. Il più grande contributo di Carlile è stato quello da far da stimolo al Rocket Man: la sua voce in un duetto serrato con quella di Elton restituisce la dimensione di falsetto caldo e acuto al suo baritono ancora potente. Nell’incredibile traccia del titolo, Carlile guida la strada, eppure sembra ancora una canzone di Elton, in parte per la preminenza del suo stile pianistico fiorito ma robusto, il tono della sua voce e il modo in cui le sue canzoni ti seducono melodiosamente per poi decollare all’improvviso verso le stelle. Si tratta di un set di pezzi forti assoluti, tra cui una scorribanda alla Crocodile Rock in stile barrel-house attraverso Little Richard’s Bible (altro omaggio a un eroe queer), la contorta fantasia dal sapore americano di The River Man e un commovente finale da solista di Elton in When This Old World Is Done Me: “Quando questo vecchio mondo sarà finito per me/ sappiate che sono arrivato fin qui/ per essere fatto a pezzi, spargetemi tra le stelle/ Quando questo vecchio mondo sarà finito per me/ quando chiuderò gli occhi/ liberatemi come un’onda dell’oceano, restituitemi alla marea”, canta. Forse nessuna popstar ha mai cantato così la sua morte, altrimenti hanno fatto il vaticinante David Bowie di Blackstar, il poeta Leonard Cohen di You want it darker, il supremo Bob Dylan di It’s not dark yet. Sembra di ascoltarlo, il ritrovato sir, che a People spiegava poco tempo fa: «Non ho più le tonsille, le adenoidi e l’appendice. Non ho la prostata. Mi mancano l’anca destra, il ginocchio sinistro e il destro. L’unica cosa che è rimasta, di mio, è l’anca sinistra. Insomma, non è che rimanga molto di me. Ma sono ancora qui». E, sulla base di questo album, non abbiamo ancora finito con lui.

“L’ULTIMA LUCCIOLA”, BEATRICE CAMPISI

Una raccolta di testi, in versi, accompagnati da illustrazioni di Elisabetta Campisi e arricchiti dalla registrazione di un album omonimo, ispirato alle poesie stesse. Questo è il cuore di L’ultima lucciola, il nuovo progetto letterario e discografico della cantautrice siciliana Beatrice Campisi, uscito oggi accompagnato dal videoclip di “Elanbeco” (realizzato da Lù Magarò), un brano che si ispira alla grande tradizione popolare e si chiude con un’antica filastrocca in dialetto siciliano. «“Elanbeco” (la parola deriva dall’acronimo dei nomi della mia famiglia) è un ulivo secolare, nato e cresciuto ad Avola, in Sicilia», spiega la cantautrice siciliana Beatrice Campisi. «Ho immaginato questa enorme pianta madre, che assiste alle alterne vicende storiche dell’Italia, dal Risorgimento all’attuale crisi climatica, passando per le guerre mondiali, I fatti di Avola del 2 dicembre del ‘68 e le stragi di mafia». 

L’album è un percorso narrativo, fatto di testi, musiche e immagini, «che cerca di aprire una finestra su sé stessi e sulle ingiustizie del mondo. Un viaggio fra brani in italiano e in dialetto siciliano con un impasto sonoro che si muove tra folk-rock, pop e radici mediterranee», spiega l’autrice. «L’ispirazione per la scrittura e la realizzazione grafica e musicale nasce da semplici suggestioni, che cercano di aprire una finestra su sé stessi e sulle ingiustizie del mondo, sul senso più astratto e simbolico della realtà, con una sorta di estraneità lucida, che si lega a oggetti e luoghi concreti, poi trasfigurati in impressioni fugaci». 

La suggestione per il titolo, nasce dalla lettura di un articolo di Pier Paolo Pasolini, noto come “L’articolo delle lucciole”, uscito sul Corriere della Sera nel 1975, a pochi mesi dal brutale assassinio dello scrittore. Pasolini paragona metaforicamente “il vuoto del potere” (titolo originale dell’articolo) di quegli anni di violenza sociale in Italia, alla progressiva scomparsa delle lucciole a causa dell’inquinamento. Una frattura insanabile, che, nell’immaginario della Campisi, lascia spazio a un fragile filo di speranza, “una scia d’illusione [che] rimane a lampeggiare / come l’ultima lucciola / in mezzo allo smog”.

“LIFE, DEATH AND DENNIS HOPPER”, THE WATERBOYS

I Waterboys di Mike Scott sono stati un pilastro sulla scena musicale britannica sin dal loro album di debutto nel 1983 con successi tra cui The Whole of The Moon e Fisherman’s Blues e una serie di album di grande successo. Il gruppo torna con il loro sedicesimo album Life, Death and Dennis Hopper, un intrigante concept album, come suggerisce il titolo costruito attorno alla vita, alla carriera e ai miti che circondano l’iconico attore americano Dennis Hopper. Questo è un affare collaborativo che assembla un equipaggio di guest star sotto forma di Steve Earle, Bruce Springsteen e Fiona Apple. Ha la voce del marchio di fabbrica di Scott e si diletta in alcuni stili che si adattano alla carriera eclettica di Hopper sia come attore che come regista.

Life, Death & Dennis Hopper è un progetto pieno di ambizione e cuore, la narrazione che cattura la vita e la carriera di Hopper è trasportante e accattivante. Anche dopo una carriera di oltre quarant’anni, Mike Scott dimostra di avere ancora molto da offrire. C’è così tanto da disfare qui attraverso una miriade di stili dal jazz al folk e al blues, ma tutto sembra adattarsi al soggetto al centro, Dennis Hopper. Potrebbe non funzionare tutto, ma quando funziona è ipnotizzante.

“FOREVER HOWLONG”, BLACK COUNTRY, NEW ROAD

Live at Bush Hall ha rappresentato una rinascita per la band e ha introdotto uno stile più lontano dagli inizi post-punk, proiettandola verso idee più luminose e teatrali. Questa atmosfera è promossa su Forever Howlong, la cui chiave di lettura, dice la band, è il meticoloso processo di creazione e messa a punto delle undici tracce nel corso di un certo numero di anni. Come per Bush Hall, le canzoni prendono ispirazione sonora dalla scrittura caleidoscopica di Joanna Newsom e spesso ricordano le graffette indie degli anni 00 di Arcade Fire e The Decemberists, mentre altre suonano come nient’altro là fuori. 

Alcuni dei capitoli più avvincenti di questo romanzo arrivano con For the Cold Country di Kershaw e Nancy Tries to Take the Night di Hyde, entrambi trionfi di oltre sei minuti intensi ma brillantemente luminosi. Il songwriting rimane abbagliante come in Bush Hall, ma gli arrangiamenti accuratamente affinati e sapientemente eseguiti portano l’album oltre. Forever Howlong vede la band favorire la leggerezza rispetto all’intensità oscura che ha definito il loro primo lavoro. Il tutto è infuso con un senso di ottimismo e libertà.

“WELCOME TO MY BLUE SKY”, MOMMA

Entrando nel mondo dei Momma – vivace quartetto di Brooklyn composto da cantanti e chitarristi Allegraa Weingarten e Etta Friedman, bassista e produttore Aron Kobayashi Ritch e batterista Preston Fulks – sé è immediatamente accolti da indie rock lo-fi e chitarre sfocate. Ora, il gruppo ha raggiunto una metamorfosi dopo un intenso tour di due mesi nell’estate del 2022 e oggi rilascia il nuovo lavoro, intitolato Welcome To My Blue Sky. La più grande differenza con il loro ultimo album è il cambiamento del suono. L’LP vede Weingarten e Friedman propendere verso un suono più pop che ricorda la colonna sonora di una commedia romantica dei primi anni Novanta.

«È stata una cosa abbastanza naturale che è successa più nel processo di scrittura rispetto al processo di produzione», ha spiegato Weingarten a NME. «Con Household Name, avevamo già usato tutti quei vecchi trucchi di ritornelli rumorosi e grandi muffs, quindi volevamo solo iniziare a fare affidamento su nuove idee per questo disco. Spero che le persone siano entusiaste che suoniamo diversi e lo accettino e si innamorino di queste canzoni nello stesso modo in cui abbiamo fatto noi».

“EL SONIDO BASTARDO”, DANZÓN EL GATO

Un kaleidoscopio di ritmi e paesaggi sonori dove echi dell’Africa del Nord, dei tropici e dell’America Latina si intrecciano. El Sonido Bastardo è l’album di debutto dell’enigmatico collettivo di Madrid Danzón El Gato, e stabilisce un dialogo affascinante tra jazz, funk e musica afro-latina, il tutto condito da una sezione ritmica ispirata in ugual misura dalla library music e dai breaks dell’hip hop della golden age.

Il nucleo creativo di Danzón El Gato è formato da Javier Adán e Santiago Rapallo, due artigiani del suono, lontani dai riflettori ma sempre in prima linea. Ogni traccia è un viaggio sonoro carico di influenze che a volte si dissolvono, lasciando l’ascoltatore in un terreno borderline e policromatico, un riflesso di Madrid stessa, un’enorme città nata dalla confluenza di culture la cui ibridazione è palpabile ad ogni angolo. El Sonido Bastardo cattura l’essenza di una città in costante trasformazione, dove la musica va e viene, ancorata alla tradizione ma con un aspetto cosmopolita ed esuberante.

“END OF THE WORLD”, MILEY CYRUS

L’annuncio del suo prossimo disco, Something Beautiful, previsto per il 30 maggio, lascia fan e critici curiosi. Si tratterebbe di un’opera pop rock e di un album visivo secondo un teaser video epico condiviso dalla star sui social network. In un’intervista alla rivista Harper’s Bazaar, Miley Cyrus spiega anche che vuole riconnettersi con le sue influenze rock e prendere una svolta musicale più drastica di quattro anni fa, attingendo in particolare all’album cult The Wall dei Pink Floyd…

Nel frattempo, sono usciti tre singoli. Il primo, un brano elettronico, psichedelico e sinfonico intitolato Prelude, è accompagnato da un video molto artistico. Ipnotico, il titolo sperimentale cantato in spoken word si allontana totalmente da Flowers e dal pop mainstream per virare dalle parti di David Bowie. Una bella sorpresa che lascia presagire una grande assunzione di rischi. Il secondo è un sorprendente jazz, rock e all’avanguardiaSomething Beautiful. Accompagnata da un video glam, la canzone si alterna tra una melodia calma e un passaggio più destrutturato, come scappato da un film di David Lynch. Il terzo è all’insegna dell’ottimismo, nonostante il titolo nostalgico End of the World: un brano pop accompagnato da un video di performance sexy e retrò. Insomma, la nuova Miley si preannuncia esplosiva…

“CATCH THESE FISTS”, WET LEG

Il prossimo 11 luglio, le Wet Leg pubblicheranno il loro secondo LP, Moisturizer, che arriva dopo poco più di tre anni dal loro omonimo debutto. Rhian Teasdale e Hester Chambers guidano le Wet Leg e sono affiancate da Ellis Durand (basso), Henry Holmes (batteria) e Joshua Mobaraki (chitarra, synth). La band dell’Isola di Wight ha lavorato ancora una volta con il produttore Dan Carey. A influenzare i testi dell’album è stato l’innamoramento di Rhian Teasdale nel 2021, che l’ha portata a scrivere una serie di canzoni d’amore. «Ho pensato di essere etero per tutta la vita fino a quando non ho incontrato la mia attuale partner: queste canzoni d’amore parlano di loro», racconta. «Ho trovato molto più interessante e stimolante scrivere canzoni d’amore in cui non sto bramando un uomo: è una sensazione un po’ diversa».

Ad anticipare la release il singolo Catch These Fists, con Rhian Teasdale che scandisce con disprezzo: “I don’t want your love, I just wanna fight”. Un manifesto d’indipendenza e autonomia che ribalta la narrazione del corteggiamento non richiesto. Il videoclip, con richiamo a Arancia meccanica, ne traduce l’energia in un’estetica aggressiva e sarcastica, restituendo un’istantanea dello stralunato universo visivo della band.

“DISCOMANIA”, CALIBRO 35

Ascoltando il secondo singolo dei Calibro 35 estratto che anticipa l’album Exploration si viene risucchiati in una tipica domenica pomeriggio italiana degli anni Ottanta, fra schedine del totocalcio da controllare e ricontrollare. E, in TV, la carrellata di gol della giornata di campionato appena conclusa. Una rilettura in chiave afrobeat dell’iconico brano, che per diversi anni fu sigla di coda del mitico programma Rai 90° Minuto, firmata da uno dei grandi maestri della musica per il cinema di tutti i tempi, Piero Umiliani, oggi artista di culto per producer, dj e musicisti di tutto il mondo, dal Giappone al Brasile.

«Ci sono pezzi in cui incappiamo quasi per caso ma rimangono nella nostra memoria indelebilmente, entrando a far parte di noi. Discomania – che fu sigla di 90° Minuto quando eravamo bambini – è decisamente uno di questi. Lo conosci e quasi non ci fai caso ma quando ti fermi ad ascoltarlo per bene ti si apre un mondo» commentano i Calibro 35. L’uscita del brano è accompagnata da un video in cui i nostri eroi vengono ripresi mentre registrano la traccia nello storico Sound Work Shop del quartiere Trionfale a Roma, che fu il tempio della produzione musicale di Umiliani, la sua casa artistica. Un video da cui emerge chiaramente lo spirito che informa il nuovo album di prossima uscita della super band più cinéphile della scena musicale, articolato in tre parole chiave: sete esplorativa, divertimento, interazione fra i musicisti.

“NAPOLI MELANCHOLIA”, LABASCO

La voce dell’artista, a tratti intima e a tratti sfrontata dipinge una città lontana dagli stereotipi: un fever dream di euforia, sesso e celebrazione che danza tra l’immobilità della provincia e il desiderio di fuga. «La famiglia Melancholia è una famiglia che va al di là del sangue. è l’incontro tra tradizione e fuga, è quel luogo che ti dà la possibilità di essere ciò che vuoi, anche quando la tradizione sembra negartelo. Qui si abbracciano le radici, ma si costruiscono nuove regole. Benvenuti», racconta Labasco.

Ad accompagnare l’uscita del brano c’è anche il videoclip ufficiale, diretto da Shalla Hope, che esalta il contrasto tra iconografia tradizionale meridionale e un’estetica sfrontata e contemporanea. Il video traduce in immagini il senso di appartenenza e ribellione che attraversa la traccia, restituendo tutta l’intensità emotiva e visiva del mondo di Labasco.

“HOMAGE”, JOE LOVANO

Joe Lovano e i suoi cospiratori polacchi del Marcin Wasilewski trio sono dotati di uno spirito particolarmente avventuroso nel loro secondo lavoro congiunto per ECM. Basandosi sui punti di forza lirici che hanno caratterizzato la precedente registrazione del gruppo (Arctic Riff, 2020), in Homage il quartetto indaga il tipo di interplay fluido e i passaggi di improvvisazione espansiva che sono diventati un punto fermo nelle imprese di Lovano con il suo trio. 

Con una durata di oltre dieci minuti ciascuna, due composizioni di lunga durata e la title track Homage – tutte originali di Lovano – costituiscono la base dell’album e trovano i musicisti al massimo della loro esplorazione, con Joe che spesso sostituisce il suo tenore e il tárogató con una varietà di strumenti a percussione. Il gruppo si cimenta con Love In The Garden, una composizione del virtuoso polacco del violino Zbigniew Seifert, impreziosendo l’evocativa melodia con armonie fluide, avvolte in ammalianti maree di rubato. Miniature improvvisate completano un programma che dimostra come Wasilewski e i suoi compagni di trio siano l’abbinamento ideale per le singolari riflessioni di Lovano, e la perfetta chimica del gruppo è più evidente che mai in Homage.

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