Disco

Paul Simon – “Graceland”

Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo il disco “africano” del cantautore americano realizzato nel 1986, pietra miliare del “pop globale”

Paul Simon con Graceland, album del 1986, ha realizzato un piccolo capolavoro di esotismo africano e iper-razionalismo occidentale, mescolando prodigiosamente i suoni dei ghetti sudafricani (lo zulubeat di Soweto o Mbaquanga e il rock di Johannesburg) con il vocabolario armonico del rock: un mix esemplare, ravvivato dalle vampe africane e illuminato da una lucidissima attenzione concettuale.

«Nell’estate del 1984, un amico mi diede la cassetta di un album intitolato Gimboots: accordion jive hits, vol. II», scrive lo stesso autore sulla copertina del disco. «Quel disco ricordava vagamente quel tipo di rock’n’roll anni Cinquanta che veniva fuori dalla scuola della Atlantic Records. Sembrava composto da quei successi popolari da tre accordi come Mr. Lee dei Bobettes o Jim Dandy di Laverne Baker. Era una musica allegra, divertente, familiare ed esotica al tempo stesso. Solo gli strumenti ed il titolo dell’etichetta mi dicevano che il disco non era stato registrato da una band americana o inglese».

«Infatti, scoprii che l’album conteneva “township jive” o Mbaquanga, ovvero la musica di strada di Soweto, il quartiere ghetto del Sud Africa», prosegue Paul Simon nelle note di Graceland. «Con l’aiuto della mia casa discografica mi misi in contatto con un produttore di Johannesburg, che mi mandò circa venti album sulla musica sudafricana. Nel febbraio del 1985 mi trasferìi a Johannesburg per registrare con tre gruppi quello che avevo ascoltato in quei dischi».

In Graceland, lo sforzo di questo piccolo grande uomo, a quel tempo quarantacinquenne con frangetta cadente sul cuoio ex capelluto e occhialini da radical-ebreo, newyorkese (con discendenza ungherese), come un pretino spretato, ma sommamente austero, di conciliare forze opposte non costituisce semplicemente un modus operandi dell’autore ma il tema e la sostanza stessi delle undici canzoni contenute nel disco. I testi si soffermano ossessivamente sul conflitto tra spontaneità e razionalizzazione – rifuggendo dalla retorica politica di certo pop cantautorale (d’altronde un album con musiche e musicisti “apartheizzati” non è già una presa di posizione?) – mentre la musica riflette la ben nota passione di Simon per i fuochi che animano le cosiddette “sfere del selvaggio”.

Dopo aver modellato il malinconico folk sudamericano (El Condor Pasa) e vulcanizzato il sinuoso reggae giamaicano (Mother and Child Reunion), Simon sfata una bugia colonialista, quella dell’africano zoologico, tutto “bwana” e mangiabanana.

Paul Simon a Soweto insieme con alcuni musicisti locali

In Africa esistono centinaia di culture raffinatissime: lo dimostra la musica di Graceland. Lo zulu-beat è musica di sentimenti trattenuti e poi improvvisamente liberati, una sensualità trascesa che ignora la scissione occidentale fra corpo e mente. Fa parte della vita quotidiana, ritma i break fondamentali dell’esistenza individuale e collettiva: nascita e morte, amore e matrimonio, commercio e lavoro, viaggio e divertimento, malattia e vecchiaia. Non è un genere di intrattenimento separato come accade in Occidente.

Viene da Paul Simon quel ribaltamento del basico tribale in esotico occidentale, del nostalgico in presente, quel ritmo che ambisce a essere sempre racconto, quella magia di una musica piena di vuoti: vi spinge e poi vi abbandona sospesi in aria e voi dovete completare il movimento, siete costretti a danzare perché il ritmo è sempre movimento nello spazio. 

Paul Simon si appropria di questi segreti con eleganza e sapienza. L’audace contaminazione è subito assimilata nella squisitezza della scrittura, che la depura di ogni asperità paradossale (per noi bianchi), d’ogni forzatura e prolissità. Assorbe lo zulu-beat dei vari gruppi sudafricani (General Shirinda, Ladysmith Black Mambazo, Stimela) in una piena plausibilità stilistica, la carica di nuovi significati e suggestioni. Nel disco sono presenti alcuni ospiti “arruolati” da Simon per raggiungere il suo obiettivo di “pop globale”, dal “futurista” Adrian Belew dei Talking Heads agli Everly Brothers, alfieri della tradizione, fino ai losangelini Los Lobos, ai quali affida il brano finale per chiudere il cerchio magico con il loro rock’n’roll esotico. 

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