– Dopo aver detto addio al suo “re” nel 2013, la Grande Mela piange oggi il suo “santo patrono”: lo scrittore Paul Auster ha perso la sua battaglia contro il cancro, aveva 77 anni
– Se il musicista ha raccontato la metropoli dal lato selvaggio della strada per risalire alla luce, l’altro è partito dall’alto per lasciarsi risucchiare verso il basso
– Due opere da avere: “Trilogia di New York” di Auster e “New York” di Reed. L’incontro sul set dei film “Smoke”, “Blue in the Face” e “Lulu on the Bridge”
Dopo aver perso nel 2013 Lou Reed, il “King of New York” come lo etichettò David Bowie, la Grande Mela piange oggi l’ultimo dei suoi cantori: Paul Auster. L’autore celebratissimo per molti suoi libri, dalla Trilogia di New York fino al recente Baumgartner, e “santo patrono di Brooklyn” come lo ha definito il New York Times, è morto a 77 anni nella notte di martedì 30 aprile per complicazioni legate al cancro ai polmoni.
Entrambi, il primo in musica, il secondo in narrativa, nei loro lavori avevano cercato di districare la matassa della commedia umana che si avviluppa in ogni strada della Grande Mela, dal vicolo più malfamato alle grandi avenue. Un’impresa difficile, che possono svolgere solo a coloro i quali New York l’hanno vissuta sulla propria pelle, come lo scrittore Paul Auster e il cantautore Lou Reed.
Mentre Paul Auster parte dall’alto, sorvolando la metropoli, per poi esserne risucchiato con violenza verso il basso ed essere costretto a farne parte, facendola così scoprire (ma mai del tutto) ai suoi lettori, Lou Reed fa l’esatto opposto. Si muove dal basso, risale dal lato selvaggio delle strade e si addentra in vicoli nascosti, iniziando il suo viaggio dall’inferno, dall’underground, per poi risalire lentamente in superficie, in cerca di una boccata d’aria, di una luce.
New York, l’ombelico del mondo, è una moderna Babele dove i due vagano senza identità, alla ricerca della strada perduta, di una terra promessa che potrebbe essere nascosta in qualche incrocio, ai piedi di qualche grattacielo o nelle strade trafficate, nelle quali Auster e Reed si incontrano e si scontrano, pur muovendosi in direzioni contrarie, e nelle quali hanno fornito il più sincero e disincantato ritratto della Big Apple.
Il “santo patrono”…
New York è al centro della “Trilogia” di Paul Auster. Sono raffinate detective stories, in cui le strade di New York fanno da cornice e palcoscenico a una profonda inquietudine esistenziale. “Città di vetro” è la storia di uno scrittore di gialli che accetta l’errore del caso e fingendosi un’altra persona cerca di risolvere un mistero. “Fantasmi” narra la vicenda di un detective privato che viene assoldato per tenere sotto controllo una persona, ma a poco a poco i due ruoli si scambiano e colui che doveva spiare diventa colui che viene spiato. “La stanza chiusa” racconta di uno scrittore che abbandona la vita pubblica e cerca di distruggere le copie della sua ultima opera.
New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé
Paul Auster, “Città di vetro”
La città è dipinta chiaramente, ma ha contorni sfumati e indefiniti, proprio come chi la abita e chi si muove al suo interno, venendo inevitabilmente catturato in un campo gravitazionale al quale non si può opporre resistenza. Le ambientazioni claustrofobiche diventano matrioske aperte di continuo, svuotate e rimontate all’infinito, nel vano tentativo di mettere ordine in questo caos primordiale.
… e il “King”
New York è una costante nella storia musicale di Lou Reed, da Transformer a Coney Island Baby sino ad Hudson River Wind Meditations. Alla sua città dedicò l’intero quindicesimo album in studio: New York. Rock diretto, chitarra corrosiva ipnotica e la voce asettica e graffiata dell’ex Velvet Underground, che più che cantare sembra e depositare su pagine bianche una serie di notizie, storie urbane e principi liberali. Donald Trump e Rudy Giuliani appaiono nei suoi testi iperdensi: allegramente, Reed sottopone entrambi a orribili calamità. Una volta ha dichiarato di voler scrivere «il grande romanzo americano» usando «il rock’n’roll come veicolo», e New York forse vorrebbe essere questo. La città della sua nascita diventa la sua contea di Yoknapatawpha, un luogo per metafore.
New York è un album che tocca aspetti degli anni Ottanta ignorati dalla musica delle major dell’epoca. Prince, Cyndi Lauper e lo stesso Reed hanno lavorato sull’HIV/AIDS in canzoni precedenti, ma quei pochi casi hanno evitato di collegare l’epidemia alla comunità gay. Halloween Parade usa l’omonima canzone tradizionale del West Village per mostrare il vuoto che l’AIDS ha lasciato nella vita queer:
Fuori è una notte luminosa / danno un’opera al Lincoln Center / le star del cinema arrivano in limousine / le luci al laser proiettate oltre il profilo di Manhattan / ma le luci sono spente nelle strade malfamate / Un bambino è in piedi vicino al Lincoln Tunnel / vende rose di plastica per un dollaro / il traffico è intasato sulla 39esima strada / le troie della TV chiamano i poliziotti per succhiarglielo
Lou Reed, “Dirty Blvd.”
Tutto si muove attorno ad una New York metropolitana, vittima della crescente urbanizzazione e globalizzazione, dove poveri, deboli ed emarginati si destreggiano in espedienti per sopravvivere all’incubo americano. La scrittura di Reed è disincantata, ironica e passionale, ma più di tutto, è intrisa di una rabbia d’altri tempi che non nasconde, bensì accentua, la sua dote poetica. E New York è strutturata intorno a personaggi: il Romeo Rodriguez dell’emozionante apertura Romeo Had Juliette, i suoi giri di frase sono stretti come quelli di Dylan a metà degli anni Sessanta; il giovane Pedro abusato nel singolo a tre accordi Dirty Blvd.; la proverbiale balena, che potrebbe essere un romanzo o potrebbe essere una specie in via di estinzione, sul punto culminante di Last Great American Whale. Ci sono riferimenti a Michael Stewart, un artista di graffiti nero assassinato dalla polizia, e Bernard Goetz, un vigilante abbracciato dall’NRA (organizzazione lobbistica che sostiene il libero possesso ed uso di armi da fuoco) che ha sparato a quattro adolescenti neri su un treno della metropolitana. In 57 minuti, New York si trasforma da una raccolta di studi di personaggi diffusi in un concept album sulla futilità dell’individuo di essere un agente significativo del cambiamento politico. Nella penultima traccia, Strawman, Reed fornisce al suo album una tesi al contrario: «Qualcuno ha bisogno di un altro cantante rock ipocrita?».
L’amicizia e l’incontro sul set
Era, quindi, inevitale un incontro sulle strade di New York fra i due. Avvenne sul set di Smoke e Blue in the Face, entrambi diretti da Wayne Wang nel 1995. «Io volevo fare l’attore», disse Lou Reed in una intervista. «Poi ho cambiato idea perché ho sempre avuto una cattiva memoria. E non pensavo di essere bravo abbastanza. Così ho cominciato a scrivermi i miei monologhi in musica: piccole commedie con me come protagonista. Se non fosse stato per l’amicizia con Paul, non l’avrei fatto».
E il primo a restare meravigliato fu proprio lo scrittore. Il monologo in gran parte improvvisato di Reed in Blue In The Face, dove inserisce la sua invenzione per gli occhiali da lettura flip-lens, porta alla luce il suo lato divertente e diventa una delle scene del film più apprezzate. La canzone Egg Cream, tratta dall’album Set the Twilight Reeling, farà poi parte della colonna sonora di Smoke. Auster avrebbe richiamato l’amico per un cameo nel film Lulu on the Bridge.