– Le strade dei due musicisti fiorentini s’incontrano in un originale album per un viaggio affascinante in un universo distopico e fantastico
– Rumori, suoni ancestrali e nuove sonorità, create da una elettronica «fatta a mano» o, più spesso, prodotte da strumenti autocostruiti
– L’ex Deadburger: «Questa è la mia prima esperienza di album strumentale, privo sia del format canzone, sia di voci, sia di legami col “rock”»
«Da venticinque anni la cultura occidentale cerca di guardare il mondo. Non ha capito che il mondo non si guarda, si ode. Non si legge, si ascolta», scriveva Jacques Attali in Rumori (1977). E il lavoro di Vittorio Nistri e Filippo Panichi è la possibile colonna sonora di un momento storico dell’umanità, sconvolto dall’incubo della pandemia e impaurito dai lampi di guerre così lontane così vicine, attraversato da emergenze economiche, sociali, climatiche.
«Questa è l’ora in cui si è meno sicuri dell’esistenza del mondo». La frase presa in prestito da Il Cavaliere inesistente di Italo Calvino e il suono sinistro e misterioso di un piano introducono in un mondo incredibile, fra fantasia, realtà, naif e surrealismo, rumori, suoni ancestrali e nuove sonorità, create da una elettronica «fatta a mano» o, più spesso, prodotte da strumenti autocostruiti: dal “mollofono”, basato su molle elettrificate, al “pipistrellatore” (una sorta di rilevatore di ultrasuoni), dall’Enner (un synth in cui le mani del musicista fungono da cavi di collegamento tra i pads) al noise-generator ricavato da un dissipatore (congegno che abbassa la temperatura delle componenti elettroniche emananti calore).
A muoversi in questo mondo incantato e affascinante, ricco di suggestioni e sollecitazioni, attraversato da riflessioni e turbamenti, sono due moderni maghi Merlino: Vittorio Nistri (già Deadburger e Ossi, tra i tanti progetti) e Filippo Panichi (improvvisatore radicale in ambiti quali ambient-noise, drone music). Due sperimentatori, insomma.
«Io e Filippo Panichi siamo entrambi fiorentini», racconta Vittorio Nistri. «Ci siamo conosciuti cinque o sei anni fa, in uno di quei luoghi magici che a volte, per un certo periodo, illuminano sotterraneamente una città e riescono a fare incontrare spiriti affini. Si chiamava Studio Rosai, ed era una sorta di “cenacolo” di cultura alternativa e di arte fuori dai binari comuni: una situazione non frequente in una città come Firenze, meravigliosa per altri versi, ma sul versante cultura contemporanea non proprio attivissima.
«Filippo ed io avevamo un approccio totalmente diverso al fare musica. Lui era interessato soprattutto all’improvvisazione radicale, per lo più in solitaria; io alla composizione e all’arrangiamento, per ensemble numerosi. Però condividevamo, ciascuno nel suo ambito, la ricerca di nuove sonorità e di soluzioni non convenzionali: Filippo per esempio è, tra le altre cose, un inventore di strumenti autocostruiti, mentre io da sempre ricerco sonorità inusuali coi sintetizzatori e sperimento filtraggi elettronici di strumenti acustici.
«Incuriositi ciascuno dall’operato dell’altro, abbiamo iniziato a collaborare, dapprima per performances live, poi per registrazioni, scoprendo che i nostri mondi sonori potevano benissimo interagire. Proprio vero che la diversità è arricchimento reciproco».
Nasce così un album a nome di entrambi, un lavoro incentrato su «musica da camera psichedelica ed elettronica sperimentale», come la definiscono. Ma non spaventatevi. Nulla di estremamente palloso. Tutt’altro. L’album è godibile e sorprendente, incuriosisce andare alla scoperta di suoni inediti, strani, bizzarri. Anche perché nelle musiche di Nistri e Panichi si può intercettare il contrabbasso degli Art Ensemble of Chicago di Silvia Bolognesi o si ascolta un riff di basso alla Hugh Hopper campionato dai Soft Machine. Malinconie morriconiane accompagnano Prove tecniche di solitudine, mentre Maya Deren Blues è un blues scheletrico e onirico. Pipistrelli sul frigorifero è un divertissement che non sfigurerebbe in discoteca, così come Giulietta Sotto Spirito si confronta divertendosi con la musica di Rota, mantenendone lo spirito fanciullesco e fiabesco pur in una dimensione più contemporanea e rumorosa. E ancora ambient music, jazz, progressive, noise, la viola di Giulia Nuti, il clarinetto e il sax di Enrico Gabrielli, il violoncello di Pietro Horvath e il trombone di Edoardo Bandini, oltre a tutte le “diavolerie” elettroniche di Nistri e Panichi.
L’assenza di basso e batteria sembra segnare un momento di rottura per Nistri rispetto alla sua matrice rock ed alle sue precedenti esperienze con Deadburger e Ossi.
«Parlerei piuttosto di uno sviluppo», tiene a sottolineare Nistri. «Già in passato avevo fatto brani solo strumentali e molto sperimentali. È il caso del cofanetto triplo dei Deadburger, intitolato La fisica delle nuvole e uscito nel 2013, nel quale avevo inserito quattro miei brani per solo forno a microonde riprocessato elettronicamente. Ma questo lavoro condiviso con Filippo è per me la prima esperienza in assoluto di album esclusivamente strumentale, nonché interamente privo sia del format canzone sia di legami formali col mondo del “rock”: da questo punto di vista, è anche un momento di rottura. L’album è completamente privo di voci, testi, format canzone, sezione ritmica basso/batteria: tutte cose che ho sempre amato molto, e continuo ad amare, ma per questi brani non servivano.
«Forse questa scelta è stata, per quanto mi riguarda, influenzata dal fatto che questo album è nato in un periodo in cui ero più incline a toni crepuscolari o intimisti che non al “fuoco” che è la natura stessa rock: un periodo difficile sia a livello collettivo (prima il lockdown, poi guerre, crisi economica ecc) che personale (un brutto male in contemporanea per me e per mia moglie, poi per fortuna debellati). Anche Filippo ha attraversato in contemporanea un periodo altrettanto difficile (perdita di persone care), per cui anche da questo punto di vista abbiamo lavorato in sintonia totale».
E una dimensione distopica, dominata dall’inquietudine e dalla paura, accompagna tutto il lavoro, sin da quella frase di Calvino e da quel suono sinistro iniziale di pianoforte nel brano d’apertura Il faro di Schrödinger. Del quale conoscevamo il famoso esperimento del gatto, ma non un faro.
«Il faro di Schrödinger non esiste nelle opere del fisico austriaco, è un mio gioco di parole, che parte dal celebre paradosso del gatto e ne associa l’indeterminatezza ad una immagine diversa. Come quel gatto è vivo e morto allo stesso tempo, così l’ipotetico faro di Schrödinger fa luce e non fa luce allo stesso tempo. È quello che è capitato a tutti noi durante il lockdown: c’eravamo realmente o no, durante quei giorni? Le luci dalle nostre finestre erano visibili da qualcun altro (riformulo: “esistevano” per qualcun altro) o no?
«Se aggiungo che il periodo del lockdown ha coinciso con quello dell’attesa delle rispettive operazioni chirurgiche per me e mia moglie (senza sapere se sarebbero andate a finire bene, come poi, per fortuna, è stato), comprenderai che per me, in quel momento, anche il domani, l’amore, tutto, era avvolto in una cortina di totale indeterminatezza».
A rendere ancora più avvincente l’album dei due sperimentatori fiorentini è il legame che si avverte con le immagini. Dal sample di Krzysztof Penderecki ne Il faro di Schrödinger, alla dedica alla cineasta sperimentale surrealista Maya Deren, ai riferimenti a Morricone e Rota, sino alla straordinaria Sheriff In Tiraspol, jazzata, potente, elettrica, ipnotica, dai richiami d’Oriente, che potrebbe fare da colonna sonora a un film di spionaggio alla James Bond sulla paradossale situazione della Transnistria dove accanto a simboli ereditati dall’URSS c’è una società monopolista, la Sheriff, di stampo capitalista che domina ogni cosa.
«Credo che, in tutti i miei progetti, ci sia sempre un legame tra composizioni e immagini. Amo moltissimo non solo la musica ma anche le arti figurative contemporanee, la letteratura, il cinema, il fumetto. Quando scrivo musica, questi mondi dentro di me si intersecano e, inoltre, si miscelano a cose accadute nella mia vita personale, o nell’ambiente intorno a me. E anche a cose che accadono nel mondo e che mi colpiscono particolarmente. Quindi, si, ogni mia composizione nella mia testa è accompagnata da immagini e da storie. Però cerco di fare in modo che possa essere fruibile anche per chi la ascolta senza conoscere quelle immagini e quelle storie».
Nel finale, sulle note di un malinconico violino che sottolinea Prove tecniche di solitudine, il rilevatore di ultrasuoni viene usato per captare e isolare i suoni della invisibile vita animale presente sulle rive del fiume Arno a Firenze, tagliando fuori tutti i rumori prodotti dalla civiltà umana. È il paesaggio sonoro prospettato per il post-catastrofe, quando tutti gli esseri umani saranno scomparsi.