Storia

MARRACASH: fiero della mia sicilianità

– Il “re del rap” chiude il suo trionfale tour negli stadi sabato 5 luglio al “SanFilippo-Franco Scoglio” di Messina con uno spettacolo di oltre due ore e più di trenta canzoni
– «Sono figlio di immigrati siciliani, figlio delle case di ringhiera senza i sanitari, dei viaggi in macchina interminabili, carichi come somari giù fino in Sicilia in Uno diesel»
–  «Ho autodistrutto l’immaginario legato al rapper duro e macho, tutto muscoli e sicurezza». «C’è una bolla live che presto dovremo ricalibrare. Troppa offerta e proposte premature»

Marracash, ovvero Fabio Bartolo Rizzo, milanese nato a Nicosia (Enna) il 22 maggio 1979. Il nomignolo deriva proprio dai suoi tratti somatici, tipici della gente del profondo Sud: capelli neri ricci, occhi scuri. «Mi chiamavano marocchino, da lì è arrivato Marracash. Prima mi arrabbiavo, poi l’ho adottato», spiega con cadenza meneghina, anche se la Sicilia resta nel cuore e nell’anima.

«Sono figlio di immigrati siciliani, figlio delle case di ringhiera senza i sanitari, dei viaggi in macchina interminabili, carichi come somari», racconta. «I miei genitori parlano ancora in dialetto e anch’io parlo il dialetto abbastanza bene. La sicilianità è un’identità di cui sono molto fiero. Ho molti parenti in Sicilia, da bambino trascorrevo tre mesi all’anno a Nicosia. Resto legato all’isola, vado spesso nel Siracusano, dove ho molti amici: li ho conosciuti qui, loro sono fuggiti dalle palazzine in cui vivevo io».

Avevo tre scelte: droga, gang o musica

Lui invece è rimasto. Ha stretto i denti ed è cresciuto nella periferia metropolitana e degradata, quella «dove convivono lo sbirro e il ladro, il malato ed il medico della mutua, spacciatori e consumatori». Davanti a lui tre scelte: la droga, la gang o la musica. Ha lottato per non essere cancellato, per affermare la propria libertà, il proprio diritto a vivere e non a sopravvivere. Insieme con altri quattordici amici, ha creato la Dogo Gang, un collettivo di artisti. Myspace, zeppo di accessi (ben centomila), è stato il suo trampolino di lancio. Poi il passaparola, i pienoni nei locali e un cd autoprodotto, diventato di culto nell’underground tanto da vendere duemila copie senza distribuzione, hanno incuriosito l’Universal che gli ha concesso fiducia, budget e piena autonomia nel realizzare il disco. 

Adesso raccoglie dischi di platino, ben dieci con due album: Persona del 2020 e Noi, loro, gli altri, con il quale, primo rapper, ha anche vinto la Targa Tenco per il miglior disco. «È assurdo perché un anno fa circa cantavo: “Meriterei il Premio Tenco per il fottuto talento che tengo”… ma non pensavo sarebbe successo davvero. In questo Paese non c’è mai stato questo tipo di riconoscimento, per cui sono davvero molto contento. Spero che questo sia un grandissimo segnale non solo per la mia carriera, ma per tutto il genere».

Attraverso i libri ha ridato credibilità al rap

Un genere, il rap, al quale Marra ha ridato dignità e credibilità, mescolandolo con i suoi libri, con l’amato John Fante di Chiedi alla polvere. «La lettura è stata una formazione, confesso che leggevo più prima», ammette. «Per me è stata importante anche per carpire un metodo, imparare i molti modi di raccontare una storia. Uno dei limiti del rap è restare all’interno di una narrazione, che nel caso dell’hip hop è il riscatto sociale. La sfida allora è trovare sempre nuovi punti di vista per raccontare questa storia. E nel tempo approfondire. Per me il passaggio c’è stato negli ultimi dischi. Dal racconto di ciò che vedevo ho cominciato a entrare nella psicologia dei ragazzi di strada, per esempio. Non solo. Ho anche autodistrutto un certo immaginario legato al rapper duro e macho, tutto muscoli e sicurezza di sé. Ma questo è un altro discorso ancora…».

Il “king del rap” collezione ogni sera “sold out”, quest’anno ha anche “conquistato” lo stadio di San Siro, ormai diventato la Scala della musica “live”, obiettivo, ambizione di tanti artisti che pur di esaudire questo desiderio danno ingressi omaggi o biglietti a 10 euro. «Non mi interessava fare un solo stadio e basta. Fare così è solo uno sfoggio, un tirare fuori il ca… Io credo che un artista debba invece pensare a costruire una carriera live, ti devi guadagnare una credibilità prima di arrivare a quel traguardo», disse Marra tre anni fa. E oggi avvisa: «C’è una bolla live e credo che presto dovremo ricalibrare. C’è troppa offerta e a volte ci sono proposte premature di artisti che si lanciano. A questo corrisponde una tendenza di produzioni troppo grandi che provoca un’escalation di prezzi verso l’alto: la musica che dovrebbe essere pop, nel senso di popolare, diventa qualcosa di elitario». 

Marracash, , il rapper dei record (127 dischi di platino in carriera, 32 d’oro e quasi 8 miliardi di stream), è rimasto invece sempre vicino alla sua gente, al quartiere Barona, da dove è cominciato tutto. «Il successo ti espone, ti mette a nudo, ti ingigantisce e come una lente di ingrandimento, mette anche a fuoco i tuoi difetti e le mostruosità; non è una vita facile, per niente», mette le mani avanti lui. «Non era scontato, non era previsto, perché ogni volta è impossibile capire dove arriverà l’album; puoi solo dare il massimo e sperare che poi vada bene. Il successo di Persona mi aveva messo addosso parecchia pressione psicologica perché certe cose diventano un po’ irripetibili. L’importante per me era aver fatto un bel disco e confermare che sono un artista. E invece il lancio di Noi, loro, gli altri è stato ancora più sbalorditivo del disco precedente. E poi è arrivato È finita la pace».

La chiusura del tour a Messina

Sabato 5 luglio chiuderà il suo trionfale tour negli stadi al “San Filippo – Franco Scoglio” di Messina. Lo spettacolo prevede più di due ore di show, una scaletta di oltre trenta canzoni che è un viaggio nel conflitto tra l’artista – Marracash – e l’uomo – Fabio Bartolo Rizzo -. Uno scontro interiore che si risolve rima dopo rima, pezzo dopo pezzo, in una esortazione al pubblico a non essere «distratti dalle cazzate» perché nel mondo «è finita la pace».

Il racconto di Marracash si sviluppa soprattutto  attraverso le canzoni dei suoi ultimi tre dischi, Persona (2019), Noi, loro, gli altri (2021), È finita la pace (2024), la trilogia nella quale ha messo in musica l’indagine dei suoi sé, ma non mancano alcune incursioni dal passato: in particolare  una emozionante Bastavano le briciole, malinconico ritratto di  famiglia, delle ferie «giù in Sicilia in Uno diesel», a cui segue l’intensa Noi, «il mio passato, la mia zona, la mia famiglia: bei tempi, oddio forse non così belli».

A metà concerto sul palco sale Madame, con cui Fabio duetta quella che probabilmente è la più introspettiva tra le tracce in scaletta, L’anima. Ma subito dopo Marracash riconquista la scena, tra le fiamme che incendiano pubblico e atmosfera: CrashQuelli che non pensanoCosplayer e Poco di buono sono la scarica di adrenalina e di rabbia che anticipa È finita la pace, durante la quale il rapper si prende il tempo di un inciso: «Circa un anno fa stavo scrivendo il mio ultimo album, pensavo al titolo da dargli per rappresentare cosa stava succedendo a me e nel mondo. Un anno dopo, la situazione è peggio di prima e oggi il titolo è più azzeccato che mai», dice dal palco. «Affrontare questo futuro fa paura anche a me: Forse è arrivato il momento in cui non possiamo essere tutti così distratti dalle cazzate: perché è finita la pace».

Immagini tridimensionali, palco gigante, giochi di luci, un corpo di ballo con otto ballerini diretto dal coreografo Carlos Kahunga Kamizele, cinque imponenti robot, colonne di scintille, lingue di fuoco e tant’altro per un mega show di oltre due ore che Marracash chiude con il brano Happy end.

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