– Nel 2018, il griot maliano aveva annunciato l’addio, è tornato con l’album “So Kono” dopo un concerto in Giappone, quando ha scoperto un aspetto di se stesso che era rimasto nascosto in cinquant’anni di carriera
– Il lavoro è minimalista ed è un omaggio alla famiglia e agli amici. Ma soprattutto è occasione per ululare a tutti: «Sono africano, sono orgoglioso / Sono albino, sono orgoglioso / Sono diverso, sono orgoglioso»
Il Mali potrebbe essere una delle nazioni più povere dell’Africa, ma rimane una superpotenza musicale. Il centro dell’impero medievale Mande è stato il terreno fertile per dozzine di storie di successo globali, tra cui Toumani Diabate, Ali Farka Toure, Rokia Traore, Oumou Sangare, Fatoumata Diawara, Boubacar Traore, Afel Bocoum, Bassekou Kouyate e Amadou & Mariam, per non parlare dei rocker Tuareg come Tinariwen, Tamikrest e Songhoy Blues.
Salif Keita potrebbe essere il più famoso di tutti, ma è sempre stato visto come lo “strambo”, il diverso. Non solo perché albino in una società che considera gli albini maledetti, ma anche perché era stato emarginato da una famiglia reale minore, in competizione con i griot della narrazione che tendevano a provenire da un lignaggio ancestrale di musicisti. Lo ha aiutato il fatto di possedere una voce straordinaria. Keita può trasformare una lirica a scatti, colloquiale e aritmica in qualcosa che scorre perfettamente; facendo in modo che ogni quantità di sillabe si adatti a qualsiasi spazio abbia, improvvisando come un cantante jazz, aggiungendo fioriture blues e note di grazia, spesso saltando su un’ottava o in un registro che fa venire la pelle d’oca.

Nel 2018 ha pubblicato Un Autre Blanc – un album in studio fortemente sintetizzato e riccamente orchestrato con Ladysmith Black Mambazo, Angelique Kidjo e Alpha Blondy – annunciando che, avvicinandosi al suo settantesimo compleanno, sarebbe stato il suo ultimo lavoro.

Così è stato fino al 2023, quando è stato invitato a suonare in un set unplugged a un festival in Giappone: solo voce e chitarra acustica, con l’accompagnamento occasionale di un ngoni (una sorta di banjo simile all’arpa) e percussioni. A Keita è piaciuta l’ambientazione, che ha fatto risaltare un aspetto di se stesso che era rimasto nascosto nella sua carriera di cinque decenni, e ha trasformato la sua suite d’albergo in uno studio improvvisato per registrare SoKono, che si traduce, appunto, “all’interno della camera” nella lingua Mande.
So Kono è l’album più minimalista di Keita, che oggi ha 75 anni. Ha sempre detto che si sente consapevole del suo modo di suonare la chitarra, vedendolo puramente come uno strumento per la scrittura di canzoni, ma qui è al centro della scena: schemi ipnotici, complessi e ripetitivi, suonato in stile a martello, pizzicato con le punte delle dita.
Alcune di queste canzoni rielaborano composizioni più vecchie. Laban, un pezzo di rock del deserto nel suo album del 2005 M’Bemba, è trasformato in una miniatura meravigliosamente barocca, con un motivo di chitarra simile a Martin Carthy. Il già abbastanza spartano Tu Vas Me Manquer (“Mi mancherai”) suona ancora più meravigliosamente spezzato, mentre Tassi, un pezzo di latin pop dal suo LP Talé del 2012, si trasforma in una meditazione ipnotica. Awa, che si traduce come Eva, è un delicato valzer in chiave minore e serve come tributo di Keita alla femminilità; l’ardente dichiarazione d’amore Cherie, che presenta anche l’accompagnamento di un violoncello e un tamburo parlante; o Soundiata, un tributo ai suoi antenati reali.

Ci sono omaggi agli amici. Kanté Manfila è dedicato a un compagno di band scomparso, mentre Aboubakrin prende il nome da un politico di successo. Uno è un elogio, l’altro una gioiosa canzone di lode, ma entrambi hanno lo stesso umore: schemi di chitarra simili a trance e voci svettanti che suonano come una chiamata alla preghiera di un muezzin.
Sorprendente la traccia finale Proud. Qui, invece di suonare la chitarra acustica, Keita passa a un simbi, un arpa-liuto maliano, con un corpo bulboso di zucca. Suona un riff metallico mentre urla i testi – in parte in inglese – al limite del suo registro vocale, metà antico bluesman, metà cantante qawaali pakistano. «Sono africano, sono orgoglioso», ulula. «Sono albino, sono orgoglioso/ Sono diverso, sono orgoglioso». È l’adatta conclusione di una grande carriera.