– La band canadese guidata da Tamara Lindeman torna dopo il sorprendente successo di “Ignorance” con il nuovo lavoro “Humanhood”, più crudo e oscuro rispetto al precedente
– Travolta dall’ondata di successo, la leader ha dovuto affrontare problemi di salute mentale che traspaiono in alcuni brani. «Scrivere un disco da quello spazio era così difficile»
– L’album è una cronaca di resilienza che si muove furtivamente dal caos alla coesione. È la narrazione di mondo immenso e complicato e delle fluttuazioni emotive di un popolo posto su un pianeta morente
Travolta dall’inaspettata ondata di successo che ha seguito lo straordinario album Ignorance (2021), il più luminoso documento su cosa significhi stare in un mondo sulla soglia dell’abisso climatico, Tamara Lindeman, frontwoman della band canadese The Weather Station, ha dovuto affrontare problemi di salute mentale, lottando con la depersonalizzazione cronica, una condizione in cui si ha la sensazione di scollegamento dal proprio corpo o dai propri processi mentali, come se si stesse osservando la propria vita dall’esterno (depersonalizzazione), e/o dalla sensazione di essere dissociato dall’ambiente.
«Ho attraversato un momento davvero difficile», dice oggi. «E direi che questa è stata l’esperienza creativa più difficile che abbia mai avuto. Scrivere un disco da quello spazio è stato molto difficile, a volte avrei voluto aspettare finché non mi sentivo me stessa».

Il risultato è Humanhood (“Umanità”, in italiano), un album denso, inizialmente frammentato: una cronaca di resilienza che si muove furtivamente dal caos alla coesione. L’album svolazza con versi poetici sul dolore, il corpo, cercando l’indesiderabile e il confuso posizionamento dell’individuo all’interno di un mondo profondamente complicato. La speranza e la connessione sono elementi inconcludenti e vaganti, che possono essere trattenuti per secondi e persi pochi secondi dopo. All’interno di questo mondo immenso e complicato c’è una narrazione umana più piccola, piena delle fluttuazioni emotive di un popolo posto su un pianeta morente. È qui che si intersecano le storie della collettività e dell’individuo.

«L’umanità è una parola collettiva, e l’umanità è collettiva e individuale. Quando ho scoperto quella parola mi sono sentita come se avessi trovato un diamante», racconta Tamara. «Mi fa pensare all’adolescenza e a come forse sia lo stesso processo disordinato. In questo momento della mia vita non ho più alcun interesse per il pensiero utopico. Dobbiamo mantenere la nostra complessità e la nostra imperfezione per sopravvivere».
Humanhood non è un album facile. Non conquista subito, richiede pazienza. È un album invernale, da ascoltare nella sua interezza con un paio di cuffie. Ogni canzone è una vignetta diversa sulla vulnerabilità dell’individuo in mezzo a tutte le trappole e i fallimenti che ci circondano. Dalle note di apertura di Descent, si avverte la sensazione di essere sommersi in qualcosa di oscuro ma magnetico. Il breve pezzo strumentale è inquietante, come entrare in una stanza scarsamente illuminata con forme familiari ma oscure. Poi arriva Neon Signs, dove Tamara Lindeman abbina la sua voce in stile Joni Mitchell ai tasti tremolanti di un pianoforte e strumenti a fiato. È delicata senza essere fragile, una voce sperduta in un mondo che sembra spostarsi sotto i suoi piedi. Canta delle relazioni transazionali e di come ci contorciamo per essere visti, eppure la strumentazione sembra mettere in discussione se valga la pena perseguire la visibilità. È disorientante, ma è questo il punto.
La title track, Humanhood, è dove l’album si cristallizza. Lindeman canta: “Forse posso tornare al mio corpo”, una battuta che sembra un appello. La canzone è costruita attorno a un mix di elementi jazz sperimentali e folk: il banjo si mescola con sintetizzatori. C’è una tensione tra presenza e assenza, tra corpo e mente. Mette in risalto il divario tra un mondo pre-tecnologico e uno che è inondato dalla costante minaccia della dipendenza tecnologica che incombe sulle nostre teste. È una canzone sulla disconnessione, ma pulsa con la vita, rifiutandosi di sprofondare nella disperazione.
Ribbon offre un momento di intimità, la voce di Lindeman si armonizza con una morbida linea di pianoforte. È uno dei momenti più minimalisti dell’album. La semplicità è però ingannevole: sotto la superficie, c’è una complessità nel modo in cui la melodia si svolge, come ogni nota indugia solo un secondo in più del previsto. Poi c’è Irreversible Damage, forse l’asse emotivo dell’album. Il clarinetto grida, quasi umano nella sua disperazione. Lindeman non nomina mai esplicitamente le ansie ambientali che aleggiavano su Ignorance, ma la corrente sotterranea è ancora lì. È inquietante, ma Lindeman non offre soluzioni perché non ce ne sono. C’è solo il peso della conoscenza. «Pensiamo di essere più invulnerabili di quanto non siamo. Se capissimo quanto siamo vulnerabili, non ignoreremmo il cambiamento climatico. Viviamo tutti nella stessa zuppa», commenta la quarantenne folksinger canadese.
Ma Humanhood non è senza speranza. È cauta, forse anche riluttante, ma c’è. Lonely è devastante nella sua onestà, ma è anche tenero. Lindeman permette a se stessa e a noi di sedersi con la solitudine senza bisogno di risolverla. È un tranquillo riconoscimento che l’isolamento fa parte della condizione umana, ma lo è anche la connessione, alla fine. L’album si chiude con Sewing, e sembra la fine naturale di questo viaggio. La metafora di rattoppare le cose insieme – troppo tardi per la perfezione, troppo tardi per annullare il casino – risuona profondamente. «Tutto quello che posso fare è acuirlo», canta Lindeman con una voce ferma ma morbida. Non è rassegnazione; è accettazione.
I paragoni con Ignorance sono inevitabili. Le atmosfere di quell’album restano quasi intatte, Humanhood sembra più sciolto, più ruvido. Non è lucido come il precedente, ma più viscerale. Dove Ignorance brillava, Humanhood brucia. Potrebbe non raggiungere le stesse vette, ma scava più a fondo, scambiando l’eleganza con la crudezza. Tamara Lindeman non consegna risposte facili o soluzioni. Ci invita a sederci un po’ insieme alla confusione e al disagio. E così facendo, offre qualcosa di profondamente umano.