– C’erano una volta teddy boy, mod, rocker, hippie, metallari, paninari: oggi i movimenti giovanili non esistono più
– L’effetto modaiolo prevale su quello culturale, si diffonde il fandom: fan ossessionati da una star, una saga, un film
“Siamo una tribù che balla / Con il volume a palla / Noi cavalchiamo l’onda / Mentre il pianeta affonda”, cantava Jovanotti nella primavera del 1991. Oggi il tribalismo musicale si è estinto. È vero, ancora puoi incontrare in strada qualche dark o metallaro, ma sembrano più modaioli, nicchie di mercato che movimenti giovanili. Il rock, invece, non è solo un genere musicale, ma un vero e proprio movimento culturale che ha dato vita a una miriade di subculture, ognuna caratterizzata da una propria estetica, valori e ideali.
Dal suo esordio negli anni Cinquanta fino agli inizi del nuovo millennio, il rock ha costantemente mutato forma, riflettendo i cambiamenti sociali e influenzando a sua volta intere generazioni. Dai Teddy Boys degli anni Cinquanta agli Indie Rockers dei primi anni 2000, ogni tribù ha rappresentato un microcosmo sociale, un rifugio per chi cercava di esprimere la propria identità attraverso la musica e lo stile.
ANNI ’50 – Teddy Boys
La nascita del rock and roll, verso la metà degli anni Cinquanta, segnò una svolta epocale nella musica e nella cultura giovanile. Il genere mescolava rhythm and blues e country, creando una fusione sonora esplosiva che trovò subito riscontro tra i giovani, stanchi delle restrizioni sociali del Dopoguerra. È in questo contesto che nacquero i Teddy Boys, una delle prime tribù legate al rock.
I Teddy Boys adottarono un look distintivo, ispirato all’abbigliamento dell’epoca edoardiana (da cui il termine “Teddy”), con giacche lunghe, cravatte sottili e scarpe a punta. Il loro stile ribelle rappresentava una forma di rivalsa sociale per i giovani della classe operaia britannica, che si identificavano nei grandi attori americani del disagio giovanile – Marlon Brando, James Dean – e nella musica di Elvis Presley, Eddie Cochran, Chuck Berry e altri pionieri del rock and roll.
Nonostante la loro immagine di ribellione, i Teddy Boys furono spesso associati alla violenza e ai disordini, in particolare durante gli eventi di ballo e concerti rock, che divennero teatro di scontri tra bande rivali. Questa ribellione giovanile, basata sulla moda e sulla musica, gettò le basi per le future tribù rock, in cui l’estetica avrebbe sempre giocato un ruolo chiave.
ANNI ’60 – La guerra tra Mods e Rockers
I Sixties furono segnati da una rapida evoluzione musicale e culturale, con l’ascesa del rock britannico e il boom della British Invasion. In questo periodo, due delle tribù più iconiche si fronteggiarono in una lotta per la supremazia culturale: i Mods e i Rockers.
I Mods, abbreviazione di “Modernists”, erano giovani urbani ossessionati dallo stile e dalla musica. Influenzati dal modernismo italiano e francese, indossavano abiti su misura, ascoltavano jazz moderno, soul e rhythm and blues, e si spostavano su scooter Vespa e Lambretta decorati. La musica dei Mods era rappresentata da band come The Who e The Kinks, e la loro filosofia era orientata verso una vita notturna frenetica e un forte senso di identità individuale.
Dall’altra parte, i Rockers rappresentavano una tribù più grezza e ribelle, fortemente legata alla cultura motociclistica e al rock and roll delle origini. Indossavano giacche di pelle, jeans e stivali da motociclista, e preferivano le moto alle eleganti Vespe dei Mods. La loro musica di riferimento era quella di Elvis Presley, Gene Vincent e Eddie Cochran, simboli di una ribellione viscerale e anarchica.
Gli scontri tra Mods e Rockers culminarono in violenti disordini sulle spiagge britanniche nel 1964, che ebbero grande risalto mediatico e resero entrambe le tribù emblemi della ribellione giovanile dell’epoca. La loro rivalità, tuttavia, rifletteva anche una divisione di classe e di aspirazioni culturali: i Mods cercavano l’eleganza e il modernismo, mentre i Rockers incarnavano una ribellione più istintiva e meno raffinata.
Gli hippie e il rock psichedelico
Verso la fine degli anni Sessanta, un nuovo movimento emerse dalla cultura giovanile americana e britannica: gli hippie. Questa tribù si sviluppò intorno al crescente movimento pacifista e controculturale, ispirato dalla resistenza alla guerra del Vietnam e dalla ricerca di una nuova spiritualità. Gli hippie adottarono il rock psichedelico come colonna sonora della loro rivoluzione culturale, abbracciando artisti come Jimi Hendrix, The Doors, Jefferson Airplane e Grateful Dead.
Gli hippie si distinguevano per uno stile di vita comunitario e orientato alla pace, con un forte interesse per l’uso di droghe psichedeliche come LSD, che venivano viste come un mezzo per espandere la coscienza e abbattere le barriere della mente. Esteticamente, erano caratterizzati da abiti colorati, tuniche, frange, fiori nei capelli e un look volutamente trasandato che rifiutava le convenzioni della moda mainstream.
Il culmine del movimento hippy fu il Festival di Woodstock nel 1969, un evento epocale che riunì centinaia di migliaia di persone sotto lo slogan di “pace, amore e musica”. Sebbene il movimento hippy si sia in gran parte dissolto all’inizio degli anni Settanta, l’eredità di questa tribù rimane viva nelle sottoculture che continuano a promuovere valori di pacifismo, sostenibilità e libertà individuale.
ANNI ’70 – La rivoluzione punk
Se gli hippie erano stati pacifisti e utopisti, nel decennio successivo i punk furono il loro esatto contrario: arrabbiati, disillusi e pronti a demolire il sistema. Nata a metà degli anni Settanta tra Londra e New York, la tribù punk esplose come una reazione feroce alla stagnazione economica e alla percezione di un futuro senza prospettive per la gioventù. La musica punk era aggressiva e minimale, con canzoni brevi, veloci e cariche di rabbia.
I Sex Pistols in Gran Bretagna e i Ramones negli Stati Uniti furono tra i principali esponenti del movimento punk. I loro fan adottarono un look provocatorio e volutamente scioccante, fatto di giubbotti di pelle, spille da balia, capelli colorati e abiti strappati. La filosofia punk era incentrata sull’idea del “do it yourself” (DIY), che incoraggiava i giovani a prendere in mano la propria creatività, senza dover dipendere dall’industria musicale o dalle istituzioni.
Oltre alla musica, il punk rappresentava una critica feroce alla politica, alla monarchia (come dimostrato dal singolo iconico God Save the Queen dei Sex Pistols) e al conformismo sociale. I punk promuovevano l’anarchia come soluzione alla frustrazione giovanile, e le loro proteste e manifestazioni spesso degeneravano in scontri violenti con le autorità.
Sebbene la sua natura autodistruttiva, il punk gettò le basi per molte delle sottoculture rock successive, tra cui il post-punk e l’hardcore punk, oltre a influenzare profondamente la moda e l’arte contemporanea.
ANNI ’80 – L’estetica oscura di Goth e Post-Punk
Dopo il crollo del punk, emerge una nuova tribù che incarnava l’eredità della musica ribelle, ma con un’estetica più raffinata e introspettiva: i goth. Derivati dal post-punk, i goth abbracciavano temi oscuri e decadenti, con testi che esploravano la morte, l’alienazione e il romanticismo gotico.
La musica goth era caratterizzata da suoni eterei e atmosfere cupe, dark, con band come The Cure, Bauhaus, Joy Division e Siouxsie and the Banshees a guidare la scena. I testi esploravano temi di alienazione, morte, amore perduto e mistero, con un forte senso di teatralità. I goth erano spesso visti come introversi e profondamente legati all’arte e alla letteratura. Con il tempo, la cultura goth si è espansa, includendo elementi di letteratura gotica e horror, diventando una delle sottoculture più longeve e influenti.
Il metal e gli headbangers
Accanto al goth, negli anni Ottanta emerse la tribù dei metallari (o headbangers), spinta dalla diffusione dell’heavy metal. Se il goth esplorava l’introspezione e l’oscurità, il metal celebrava la potenza e la ribellione. Band come Metallica, Iron Maiden, Judas Priest e Slayer incarnavano un suono aggressivo, caratterizzato da riff di chitarra pesanti e una batteria martellante.
Gli headbangers si distinguevano per un abbigliamento fatto di giubbotti di pelle, borchie, jeans attillati e capelli lunghi. La cultura metal celebrava l’intensità emotiva e fisica della musica, che spesso trattava temi come la mitologia, la guerra, la morte e la resistenza individuale. Negli anni Ottanta, il metal si frammentò in numerosi sottogeneri, dal thrash metal all’heavy metal classico, creando una base di fan sempre più diversificata ma unita da un senso di comunità e appartenenza.
Paninari e new romantic
Nello stesso decennio, in Italia, nacquero e si diffusero due tribù che facevano coincidere i confini della musica con quelli della moda. Questo secondo aspetto, via via prenderà il sopravvento sul primo.
Uno degli elementi distintivi dei paninari era appunto lo stile di abbigliamento, fortemente influenzato dalla moda americana, in particolare quella “preppy” (l’abbigliamento tipico dei college americani). L’abbigliamento era al centro della loro identità e ogni dettaglio era studiato con attenzione. I piumini Moncler, particolarmente quelli in colori sgargianti, erano un simbolo di appartenenza alla tribù, poi jeans Levi’s 501, scarpe Timberland o Camperos, felpe Best Company e Ciesse Piumini, accessori come cinture e fibbie El Charro, marchio che evocava un’immagine di ribellione e avventura.
La sottocultura dei paninari non era solo una questione di moda: la musica giocava un ruolo altrettanto centrale. Sebbene i paninari non si identificassero con un particolare genere musicale, la colonna sonora della loro epoca era fortemente influenzata dal pop commerciale degli anni Ottanta, con artisti come Madonna, Duran Duran, Spandau Ballet e Depeche Mode a dominare le classifiche. In Italia, un gruppo musicale legato in modo iconico alla cultura paninara fu quello degli Squallor, noti per i loro testi provocatori e goliardici. Anche lo spettacolo televisivo “Drive In”, un programma satirico che rappresentava la spensieratezza e l’eccesso degli anni ’80, divenne un punto di riferimento per i paninari. I Pet Shop Boys, celebre duo pop britannico, immortalò la figura del paninaro nel loro singolo del 1986 intitolato proprio Paninaro. La canzone, sebbene ironica, celebrava lo stile di vita e l’estetica dei paninari, facendo eco alla loro passione per la moda e il consumo.
Come quella dei paninari, anche l’estetica della tribù New Romantic era volutamente esibizionista. Gli abiti, il trucco e l’acconciatura erano altrettanto importanti quanto la musica. Gli uomini e le donne del movimento sfidavano le convenzioni di genere, indossando trucco pesante, abiti dai colori vivaci e acconciature elaborate. L’enfasi era sull’eccesso, l’opulenza e il dramma. I vestiti erano spesso fatti su misura o realizzati da stilisti emergenti come Vivienne Westwood, che contribuì a definire lo stile del movimento.
Musicalmente preferivano la new wave e il synth-pop. Le band New Romantic si distinguevano per l’uso di sintetizzatori, melodie orecchiabili e una produzione musicale sofisticata, abbandonando le chitarre distorte del punk per suoni più elettronici e avveniristici. Tra i principali esponenti del movimento troviamo i Visage – la band di Steve Strange è forse il simbolo per eccellenza del movimento, con la loro hit Fade to Grey che divenne l’inno non ufficiale dei New Romantics -, Duran Duran, Spandau Ballet, Culture Club e ancora: Japan, Ultravox, Adam and the Ants e i primi Human League. La musica New Romantic rifletteva l’estetica del movimento, con liriche spesso romantiche, futuristiche e sognanti, che evocavano un senso di evasione e glamour.
ANNI ’90 – Grunge e Britpop
Gli anni Novanta segnarono una svolta significativa nella cultura rock, con il crollo del glamour e dell’eccesso del decennio precedente e l’ascesa di un’estetica più disillusa e introversa. Due movimenti dominano questo decennio: il grunge e il britpop.
Il grunge nacque a Seattle, diventando la colonna sonora di una generazione caratterizzata da disillusione e apatia: la Generazione X. Artisti come Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden e Alice in Chains mescolavano elementi di punk, heavy metal e rock alternativo per creare un suono grezzo e sporco. I testi del grunge trattavano spesso di alienazione, depressione, ansia e la sensazione di essere fuori posto nel mondo moderno.
Il look dei fan del grunge era altrettanto disinteressato al glamour: camicie di flanella, jeans strappati e abbigliamento sovrapposto che sembrava suggerire una completa indifferenza alla moda. Il grunge, in reazione all’eccesso degli anni Ottanta, incarnò il rifiuto del consumismo e della superficialità. La morte di Kurt Cobain, leader dei Nirvana, nel 1994 segnò simbolicamente la fine dell’era grunge, ma il suo impatto sulla cultura giovanile è durato a lungo.
Nel Regno Unito, la reazione al grunge americano prese la forma del britpop. Questo movimento cercava di riscoprire il patrimonio musicale britannico, guardando ai Beatles, ai Kinks e agli Who come principali ispiratori. Band come Oasis, Blur, Pulp e Suededominarono la scena, con un sound che celebrava l’ottimismo e la vita quotidiana britannica, contrapposto alla cupezza del grunge.
Esteticamente, il britpop mescolava elementi della moda mod degli anni Sessanta con un’attitudine da strada. I fan si vestivano con giacche parka, maglie a righe e jeans, e partecipavano a un senso di orgoglio nazionale che si manifestò nel fenomeno del Cool Britannia, con la cultura pop britannica che conquistava di nuovo la scena globale.
ANNI ’00 – Emo, Indie e la rivoluzione digitale
Con l’inizio del nuovo millennio, la cultura rock si frammentò ulteriormente, dando vita a nuove tribù musicali caratterizzate dall’introspezione e dall’individualismo.
All’inizio degli anni 2000, la scena emo esplose come un’estensione del punk rock e del post-hardcore, ma con un’enfasi molto più marcata sull’emotività e sull’espressione del dolore personale. Band come My Chemical Romance, Fall Out Boy e Panic! At the Disco divennero icone di questa sottocultura, con testi che esploravano il disagio adolescenziale, la depressione e il cuore spezzato.
Gli emo si distinguevano per un’estetica peculiare: capelli neri e frange lunghe, spesso coprenti un occhio, eyeliner scuro, vestiti neri e accessori come braccialetti e spille che accentuavano l’aria malinconica. La tribù emo fu spesso fraintesa e criticata, accusata di promuovere una cultura del vittimismo, ma rappresentava per molti adolescenti un’importante valvola di sfogo emotivo.
Parallelamente, un’altra grande tribù emerse negli anni Duemila: quella degli indie rockers. Questa sottocultura si sviluppò intorno a band che operavano al di fuori del mainstream musicale, come The Strokes, Arctic Monkeys, Arcade Fire e The White Stripes. L’indie rock celebrava l’autenticità e la creatività indipendente, lontano dalle grandi etichette discografiche e dai meccanismi commerciali.
Esteticamente, gli indie rockers adottarono uno stile minimalista e alternativo, con abiti vintage, t-shirt semplici e una generale noncuranza verso la moda commerciale. Il movimento indie fu accompagnato dalla crescita delle piattaforme digitali come Myspace e YouTube, che permisero a band indipendenti di raggiungere un pubblico globale senza l’appoggio delle major.
Anni ‘10 e ‘20: fandom e riciclo
Negli anni più recenti, la scena rock è diventata sempre più frammentata, con il rock che ha perso il suo dominio centrale nella cultura popolare a favore di altri generi, come l’hip hop e l’elettronica. Tutto ciò che suggerisce differenze di stile viene assorbito dall’industria tessile e dalla macchina pubblicitaria e trasformato in un prodotto commerciale. O viceversa: urban, ormai considerato un genere musicale, era inizialmente un eufemismo utilizzato dalle agenzie pubblicitarie per le campagne rivolte ai consumatori afroamericani.
È cambiato il modo di reperire la musica. In altri tempi ciò richiedeva uno sforzo, perfino un investimento: ascoltare certi programmi radiofonici, leggere riviste specializzate, visitare negozi di dischi, registrare e scambiare cassette. Molto diverso dal presente. Non c’è più l’urgente bisogno di cercare la musica: arriva direttamente sul nostro computer e sul nostro cellulare. I misteriosi algoritmi di streaming ci dicono cosa dovremmo ascoltare. Alcune selezioni orwelliane che possiamo integrare con brani meno scontati, magari scoperti in pubblicità, serie o colonne sonore. L’album, dalla grafica elaborata e dalle informazioni complementari, è stato sostituito dall’asettica playlist. Quella che una volta era quasi una religione è diventata intrattenimento, se non rumore bianco per mascherare le aggressioni del rumore esterno.
Avere “tutta la musica del mondo” (una bugia, ma questa è l’affermazione) a portata di mano ha gravi implicazioni per la creazione contemporanea. Con tutta la musica più o meno mappata, le opzioni sembrano limitate alla copia, all’ibridazione, alla sovversione o all’ironia. Per l’ascoltatore insensibile, tuttavia, la sensazione generale è “l’ho già sentito prima”.
È infatti l’era del revival, non nel senso nostalgico, ma del riciclaggio, della “rivisitazione con uno spirito nuovo”. Può essere vero, ma molti riciclaggi non suonano freschi. Tutt’altro. Prevale la sottocultura fandom, fan ossessionati da un fenomeno culturale, come un hobby, un libro, una saga, un autore, un genere cinematografico o una moda. Fan all’ennesima potenza, divorano sostanzialmente tutto ciò che viene loro offerto dall’oggetto dei loro desideri, senza alcun spirito critico.
Può essere vero, ma non calcoliamo che i possibili riciclaggi suonino freschi alle orecchie tenere. Qui è urgente evidenziare il fenomeno del fandom, che è privo di tali pregiudizi: fan all’ennesima potenza, divorano sostanzialmente tutto ciò che viene loro offerto dall’oggetto dei loro desideri. Certo, gran parte del miglior pop sono produzioni industriali, per non parlare degli artisti fantasma, così comuni nella disco music o nella techno. L’essenziale è che le fan – sì, sono soprattutto donne – sono l’unica tribù ancora mobilitata.