– L’artista romana nel suo nuovo lavoro “A cura voz” volteggia fra Sudamerica e Meridione d’Italia, intrecciando culture, sonorità e canzoni: «Quando ascolto Chavela Vargas mi sembra di sentire Rosa Balistreri». «Traduco il mondo latino nel linguaggio del folk che sento mio di nascita»
– È un album di grida – dal primo vagito alle urla di lotta, di disperazione, di follia, di passione – ma non gridato: «Nei canti di lavoro, di galera, anche di amore, di pazzia, di spartenza, io ho rintracciato una nascita e mi sono ritrovata a usare diversi tipi di voce per tutte queste nascite»
«La creatività è un uccello senza piano di volo, che non volerà mai in linea retta», ripeteva Violeta Parra. E, come una delle sue eroine, Lavinia Mancusi volteggia in libertà fra le Ande e gli Appennini: «cantante, musicista e altri colori», si descrive su Instagram. Gli altri “colori” sono la danza, lo studio della musica popolare, le collaborazioni con importanti artisti della scena cantautoriale italiana, come Eugenio Bennato, Alessandro Mannarino e Francesco Guccini. E la scrittura: Revolucionaria! Le vite intrecciate, la musica senza tempo e le lotte grandi come il mondo di Violeta Parra, Mercedes Sosa e Chavela Vargas è il titolo del suo primo libro, dal quale ha tratto anche uno spettacolo di teatro-canzone che la scorsa settimana ha portato in Sardegna per presentarlo al Festival letterario “Fino a Leggermi Matto”, organizzato dal collettivo Ragazze Ribelli. «Il “duende” va seguito, dove va va, nella letteratura come nella danza, serve tutto allo stesso scopo», sorride l’artista romana.
Il “duende” è quel “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”, scrisse Goethe. È quel non so che posseduto dagli artisti (non tutti), quella forza misteriosa che emana lo spirito della Terra. Lavinia Mancusi possiede il “duende” e trasporta quella forza magica che permea la cultura spagnola in A cruda voz, l’album in uscita oggi per Liburia Records. Superbo lavoro nel quale – come lascia intuire il titolo in esperanto – la voce cruda e nuda è uno specchio dei nostri sentimenti più profondi, capace di trasmettere gioia, tristezza, amore, ansia e molto altro ancora.
In A cruda voz, il mondo sudamericano si intreccia e si fonde con quello mediterraneo nel quale l’artista romana si è formata: «Sono figlia di genitori campani, amanti della musica dei popoli, che ascoltavano Murolo, De André…., questa è stata l’aria che ho da sempre respirato in grande libertà. Attingo molto dal repertorio del Canzoniere del Lazio».
Come è nato questo connubio fra i due Sud del mondo?
«Il primo gancio è arrivato dalla voce umana. Mi è sempre sembrato che alcuni artisti come Violeta Parra, Mercedes Sosa e Chavela Vargas cantassero come le donne del nostro Sud. Non ho mai sentito il divario della lingua, mi è sembrato che fossimo parenti e quindi quando ascolto Chavela Vargas mi sembra di sentire Rosa Balistreri. Il mondo latino mi ha sempre affascinato molto. Sono del parere che tutte le istanze rivoluzionarie vengono da lì, mi riferisco al movimento indigeno o a quello delle donne di “Ni una menos” (Non una di meno). Nasce tutto lì. Il Sudamerica culturalmente è molto simile all’Europa, però forse ha mantenuto una vitalità diversa, quasi come se non fosse stato contaminato dalle colonizzazioni, da un pensiero religioso che è opprimente, come quello mediterraneo. Loro hanno una vita diversa, come se avessero trasfigurato la colonizzazione in qualcosa che comunque li porta a essere sempre vitali. La contaminazione che faccio avviene per ignoranza: non mi va di fare il compitino, dicendo questo si fa alla venezuelana oppure alla cilena: quello che capisco cerco di tradurlo nel linguaggio del folk che sento mio di nascita».
Questa ricerca sulle contaminazioni fa scoprire abbinamenti impensabili e sorprendenti. Accade che ‘A curuna, brano cantato da Rosa Balistreri, suoni come un fado portoghese per poi intrecciarsi con Mamma damme cento lire. O anche che il Secondo coro delle lavandaie, nella versione di Roberto De Simone, si confonda con la tammurriata di Fenesta ca’ lucive, un testo anonimo del Settecento napoletano che sembra provenire da un bordello di Buenos Aires dove si balla il tango.
«Sono combinazioni nate come l’album che, di fatto, è come se non avesse una soluzione di continuità, come se fosse una lunga suite. Come nascono i pensieri, uno dopo l’altro», spiega Lavinia Mancusi. «C’è effettivamente un percorso di nascita, crescita e morte. Il percorso della vita, che si conclude con un desiderio di liberazione collettiva che si esplicita nella valanga di tamburi pronti a scuotere il canto dei prigionieri in Morsi cu morsi, e nel successivo Il lamento dei mendicanti, brano del cantautore pugliese Matteo Salvatore, che parla di un altro carcere, quello degli emarginati di ogni società ridotti alla schiavitù, alla fame, sui marciapiedi della città. Padrone mio, dello stesso Salvatore, e soprattutto in Lavoro tra li pecuri e li cani, due canti di rivendicazione contadina: è una umanità in rivolta che rivendica il suo diritto a vivere. Credo che partiamo da soli, ma è nel rapporto umano che si può risolvere qualcosa. Non si può rimanere da soli. A chiudere l’album, l’arrabbiato monito di Montesicuro. La voce cruda della consapevolezza che si dissolve nel grido anonimo e ritmato di una teoria di filastrocche, di una serie di voci che diventano memoria e insegnamento di lotta per le generazioni a venire».
A cruda voz è un album di grida, dal primo vagito alle urla di lavoro, di lotta, di disperazione, di follia, di passione, ma non è un album gridato. La voce di Lavinia Mancusi non va mai sopra le righe, non tende a sovrastare gli altri strumenti, anzi dialoga con loro, diventando una chitarra distorta in Morsi cu morsi; un canto angelico in Lamento dei mendicanti dall’andamento blues con un fischio finale che richiama le atmosfere western alla Ennio Morricone; è da brividi in ‘A curuna; è dolce nella stupenda Padrone mio; è un’incantevole sinfonia di suoni in Marinaresca.
«Con Cruda Voz volevo indicare il primo vagito», dice Lavinia descrivendo la genesi del disco. «Nei canti di lavoro, di galera, anche di amore, di pazzia, di spartenza, io ho rintracciato una nascita, sebbene parlino di morte, anche perché in Sudamerica come nel Mediterraneo c’è sempre questa mescolanza fra ciò che inizia e ciò che finisce, fa parte della nostra cultura, dell’Olimpo delle nostre divinità pagane, da Pulcinella a tutta quella schiera di personaggi ambigui, non in senso negativo. Anche gli strumenti della nostra tradizione tradiscono questa caratteristica. Il disco è nato un po’ perché volevo raccontare il canto popolare, quello che secondo me è disperazione e vitalità insieme. Poi, man mano che si lavorava a quest’album con Mauro Menegazzi, che è il produttore musicale, è diventato anche una sperimentazione sulla voce. Abbiamo introdotto l’elettronica, ma utilizzandola con parsimonia. Mi sono ritrovata a usare diversi tipi di voce per tutte queste nascite».
Quanto c’è in questo disco delle eroine rivoluzionarie raccontate nel suo libro?
«Magari averne un’unghia… Diciamo che è stato molto interessante studiarle, ascoltarle. Con i loro aneliti di coraggio hanno fatto la storia del folk, io sono una spettatrice innamorata. Stiamo parlando di donne che già a 15 anni erano fuori di casa, hanno attraversato un continente a piedi, registrando, raccogliendo materiale che stava andando perduto. Sono state delle apripiste, delle pioniere, esploratrici».
Ma forse, come canta Diodato, anche cantare un’emozione è ancora un atto di rivoluzione.
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