– «Il nuovo album della cantautrice partenopea stravolge la tradizione trasportandola nella contemporaneità
– «I miei riferimenti oggi sono campagnoli, barocchi, ancestrali e molto poco urbani. E mi apro al Mediterraneo»
“Pecché so ‘nat ’femmena, pecché so nat’. Ce sta chi me vo ‘prena, chi me vo‘ ’nzurata. So ’figlia d’’a tempesta e nun me ponn‘ ’ncatenà». Si presenta così La Niña, la Figlia d’’a tempesta, il singolo che ha anticipato l’uscita di Furèsta, il suo nuovo album. Un disco “furèste”, selvaggio, che in dialetto partenopeo sottintende indomabilità, con una musica che pesca a piene mani tanto dalla villanella tradizionale quanto dal vasto serbatoio mediterraneo.
«È un album pieno di animali, dunque selvatico», chiosa lei. «Furèsta è poi una parola che diceva spesso mia mamma quando ero piccola per definire la natura dei nostri gatti. Un aggettivo che a ripensarci oggi dice molto anche di me».
Chanteuse distopica, classe ’91, Carola Moccia – così la musicista all’anagrafe – è tra le cantautrici più versatili della scena elettro-folk italiana. Lo scorso anno si è esibita al Festival di Sanremo al fianco di Big Mama, Gaia e Sissi, nella serata dei duetti, dopo essere salita alla ribalta grazie al successo del tormentone Tu, cantato in duetto con Franco Ricciardi, che ha raggiunto in poco tempo 17 milioni di visualizzazioni su YouTube. La Niña ha debuttato in tv accanto a Massimo Ranieri in veste di co-protagonista nella serie La voce che hai dentro. È “the next big thing” della scena italiana, un «incrocio tra Rosalia e Teresa De Sio», ha azzardato qualcuno, cercando di definire l’indefinibile, quanto adrenalinico ed emozionante, punto di incontro tra elettronica e tammurriate, melodia e ritmo, serenate e post-trip hop, avant-pop e Nccp, melodia e rap, sacro e profano. È una gatta che graffia, che porta scompiglio nel mondo della tradizione, voltando e rivoltandolo, ribelle e infuriata come appare raffigurata nella copertina dell’album.

«È un dipinto del pittore Ciro Morrone, e gli scippi presenti si riferiscono alla canzone Chiena ‘e scippe che racconta la mia infanzia», spiega. «L’idea in realtà era raffigurare una popolana che non ride più, motivo per cui il mio sguardo è cupo. Per fortuna il giorno in cui mi hanno scattato la foto ero anche estremamente arrabbiata».
Rispetto ai precedenti lavori, in Furèsta l’artista di Pozzuoli abbandona l’elettro-pop sperimentale per immergersi nella musica popolare napoletana e, più in generale, in quella mediterranea. Si passa da Guapparia che suona come un’elegante coltellata, una critica sociale molto attuale nascosta in un canto popolare: “Guapparia che mania/ Tutt’o munn’ vo’ guarda’/ Ma si’ morene a Scampia/ aggirate a capa a llà./ Tarantelle e guapparia/ chest’ vonn’ a sta città/ Na puttan’ e cumpagnìa/ ca’ nisciun’ vo’ spusa’” – alle collaborazioni con Kukii, cantante, compositrice e produttrice egiziana-iraniana (in Treemm’ sul bradisismo), e con Abdullah Miniawy, poliedrico artista di origini egiziane (in Sanghe).

«Volevo rendere tutto databile, ma allo stesso tempo non nostalgico o citazionista. I miei riferimenti oggi sono campagnoli, barocchi, ancestrali e molto poco urbani. Avevo bisogno di ritrovare una scintilla, il piacere meditativo della musica. Mi mancava il misticismo», commenta. «Mi sono sentita posseduta da spiriti antichi e da defunti senza una chiara identità, perché le villanelle e le moresche del Quattrocento sono persone che non hanno nomi. Le registrazioni contadine mi hanno aiutato molto in questo nuovo percorso. In Furèsta rivivono i suoni delle campagne napoletane del passato greco della città, la cosiddetta Campania Felix, mentre il contesto urbano è assente», racconta. «E poi mi apro al Mediterraneo perché considero i nostri veri fratelli perlopiù i popoli del Sud, anche nelle scale musicali. Mi piace sapere che qualcuno mi ascolta lontano da casa mia, e mi capisce, nonostante il dialetto, la mia lingua. Da vera “furèsta”, da vera selvatica, mi sono liberata da tante convenzioni, anche dalle gabbie in cui mi ero rinchiusa da sola».
Da quelle gabbie escono fuori le streghe, quelle che in O bballo d’ ‘e mpennate si trasformano in cavalli e non è un caso che il ritmo sia scandito da campionamenti di trotto e di galoppo. Streghe che non hanno più paura di esporsi e Figlia d’’a tempesta è l’urlo di ribellione.
Un album importante, che s’inserisce di diritto nella nuova ondata di riscoperta del folk mediterraneo portata avanti da artisti come Maria Mazzotta, Daniela Pes ed i Brigan.