– La “femmena furèsta” ammalia e conquista il pubblico del Medimex facendo incontrare l’elettronica con la tammurriata, portando uno spirito giovane e moderno in un’anima antica
– «Mi chiamo La Niña perché, anche se sono una donna forte e cresciuta, c’è una parte di me che vorrebbe solo essere quella bambina che sta nel suo giardino a guardare la natura e gli animali»
Quattro donne sul palco fra tammorre, nacchere, flauti, chitarre. E stupende voci. Tutte coperte di stracci neri, come i loro capelli. Poi ci sono una tastiera e una parte elettronica, l’unico spazio in cui un uomo fa capolino. Perché le protagoniste sono loro le “femmene furèste”, selvagge, indomabili. Gatte nere che tirano subito fuori i loro artigli per graffiare. Animali da palcoscenico dalla fisicità profonda e magnetica. Streghe sensuali e carnali, pronte a trasformare l’Eden in un inferno.
A guidarle è la chanteuse distopica Carola Moccia, classe ‘91, in arte La Niña, un passato nel duo Yombe, con Alfredo Mataluno, ancora oggi al suo fianco. È “the next big thing” della scena italiana, un «incrocio tra FKA Twigs e Teresa De Sio», ha azzardato qualcuno, cercando di definire l’indefinibile, quanto adrenalitico ed emozionante, punto di incontro tra elettronica e tammurriate, Pino Daniele e Maria Nazionale, i mandolini di Murolo e il blues di James Senese, melodia e ritmo, serenate e post-trip hop, Nuova Compagnia di Canto Popolare e rap, la tarantella del popolo e la procacità di Sophia Loren.
La Niña ha aggiunto fashion e bellezza alla musica folk, rende urban le villanelle, canta con il vocoder la tradizione classica napoletana di Maruzzella, come può essere semplice e tradizionale nella serenata da “posteggia” Era de maggio (con l’inatteso accompagnamento del garrito dei gabbiani). Porta uno spirito giovane e moderno in un’anima antica.
È un concerto minimale, l’allestimento è inesistente, alla luce del tramonto. La musica è talmente teatrale che non ha bisogno di visual, scenografie. Lo sfondo è quello della corte del Castello Aragonese di Taranto, che ospita la rassegna di world music “Le strade del Mediterraneo” ideata da Antonio Diodato per il Medimex 2025.
Si balla tanto (fin dall’inizio invita il pubblico ad alzarsi con ‘O ballo d’’e ‘mpennate) e si ascolta (il giusto). La Niña racconta i brani e li canta con voce cristallina, impeccabile. «Mi chiamo La Niña perché, anche se sono una donna forte e cresciuta, c’è una parte di me che vorrebbe solo essere quella bambina che sta nel suo giardino a guardare la natura e gli animali», dice introducendo Oinè.

Pica Pica rappresenta la testardaggine, Manalonga è la depressione, Salomè è un inno femminista in cui danza del ventre e rap s’intrecciano. Fortuna è la storia di una donna migrante, e fra una bandiera palestinese sventola fra il pubblico.
La Niña usa tutti i topoi classici della canzone popolare e in questo innova poco: la terra, il dolore, la nostalgia, la ricerca di una promessa migliore, l’amore anelato. Nelle canzoni di Furèsta si sente tutto l’attaccamento alle radici, il frutto di un’infanzia confusa «in cui l’unico conforto erano i gatti». È una donna di mondo e una donna di nido che vuole tutto, ma soffre per la cosa più vecchia del mondo, l’amore.
Il finale è un’apoteosi con Guapparìa e Figlia d’ ’a tempesta. “Pecché so’ nata femmena, pecché so’ nata / Ce sta chi me vo’ prena, chi me vo’ ‘nzurata / So’ figlia d’a tempesta e nun me ponn’ ‘ncatenà / Faciteme passà, faciteme passà”.
Facitela passà. E inchinatevi davanti a codesta bellezza e bravura.
