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La morte delle sottoculture

– Se nel Novecento la musica si legava a determinate comunità, adesso internet e i social media tendono a mercificare le fugaci tendenze. Spesso oggi gli artisti si esibiscono per un pubblico che non ha alcun legame sostanziale con la loro musica. Il caso dell’etichetta “indie”
– L’antropologo Ted Polhemus: «Oggi i giovani si muovono come all’interno di un supermercato». Tim Stock, professore di analisi delle tendenze: «Molte sottoculture nascono oggi attorno al desiderio, particolarmente forte nella Gen Z, di far piazza pulita di ogni sorta di stigma culturale»

Siamo nel 2014. S’indossano calze strappate, pantaloncini di jeans e maglietta stropicciata, si scarabocchiano poesie su un quaderno e si scrive un blog su Tumblr. I pezzi preferiti risuonano da un giradischi di un negozio dell’usato: Arctic Monkeys, Lana del Rey, The 1975, Marina and the Diamonds.

Molti ragazzi della Generazione Z o giovani millennial potrebbero ripensare a quel periodo e rabbrividire, considerandolo una fase imbarazzante, segnata da emozioni adolescenziali, cattiva moda e un’impronta digitale deplorevole. Per quanto ciò possa essere vero, il Tumblr del 2014 potrebbe essere stato solo uno degli ultimi accenni di quella che può essere considerata una sottocultura distinta, una comunità unita dalle proprie convinzioni, interessi e gusti musicali (di tipo indie pop). Nel corso degli anni 2010, le sottoculture stavano già iniziando a ridursi e frammentarsi negli spazi online e questa epoca ha segnato l’inizio della fine, con Internet, gli algoritmi e le piattaforme dei social media che hanno preso il sopravvento.

All’inizio fu il rock’n’roll

A partire dal rock’n’roll, la cui nascita è convenzionalmente posta a cavallo tra il 1954 e il 1955, la storia della popular music si caratterizza per un susseguirsi di generi, stili e appunto gusti musicali tutti associati, alcuni più altri meno, a fattori sociali collettivi extramusicali come un particolare stile di abbigliamento, una certa iconografia, talvolta un vero e proprio stile di vita. Il caso del punk è forse quello più celebre, anche perché è proprio in corrispondenza di esso che si è andata costituendo, alla metà degli anni Settanta, quella che è nota come la teoria subculturale (o sottoculturale), ovvero una concezione dei rapporti tra una certa posizione nella struttura sociale, tipicamente subordinata o subalterna, e l’adozione di un particolare genere musicale come centro di gravità di un più generale modo di vita, tipicamente eccentrico, alternativo o addirittura deviante.

Con il nome di subculture (o sottoculture) musicali giovanili si designano appunto quei movimenti insieme sociali e musicali come i mod, i rocker, gli skinhead, i punk, che hanno segnato la storia della popular music nel mondo di lingua inglese, e, a partire da qui, nel mondo occidentale nel suo complesso (e in qualche caso anche al di là di questo). Ma appartengono alla varietà delle subculture musicali giovanili anche quelle forme musicali che – come l’heavy metal, il reggae, la techno, l’hard-core o il rap – si caratterizzano oltre che per il ricorrere di certi modelli musicali, anche per la presenza di uno stile estetico che investe sia l’immagine esteriore (abbigliamento, acconciatura, trucco ecc.) sia una visione del mondo e della vita, più o meno elaborata e formalizzata e più o meno tradotta in ideologia.

Dal rock psichedelico all’emo, la musica ha dato vita a centinaia e persino migliaia di stili di nicchia, ognuno caratterizzato dal proprio sound, ideologia e comunità. Molti di questi stili sono sbocciati in comunità vibranti e unite, definite da molti “sottoculture”. Le sottoculture o subculture sono strettamente intrecciate con il loro stile musicale associato: gli hippy degli anni Sessanta e Settanta erano fortemente legati a gruppi rock psichedelici come i Pink Floyd e i Grateful Dead, ad esempio. Queste band riflettevano l’ideologia e i valori della sottocultura e la comunità come fanbase ha rafforzato la presenza delle band nel panorama sociale, politico e culturale generale. 

Tuttavia, con l’ascesa di Internet, in particolare di piattaforme di formato breve come TikTok, comunità come queste hanno iniziato a svanire. Le sottoculture alternative hanno sofferto in modo particolare, con molti che si lamentano del fatto che la mercificazione del loro stile visivo e la diluizione della loro ideologia attraverso marchi di moda, pubblicità e algoritmi dei social media, hanno portato a una rappresentazione distorta e sovraesposta della sottocultura, espandendo la comunità ma non nutrendola. Inoltre, la mancanza di luoghi d’incontro fuori dai social e l’aumento della popolarità delle comunità online hanno portato a una diminuzione delle socializzazioni e delle connessioni negli spazi fisici. Ma come è successo tutto questo? Se l’obiettivo iniziale dei social media era quello di promuovere la connettività e l’unione, perché la loro esposizione li ha indeboliti anziché rafforzarli?

Le sottoculture

Per comprendere appieno la posizione attuale delle sottoculture, vale la pena esaminare prima la loro storia e le loro definizioni. Cosa costituisce una sottocultura? Come determiniamo cosa può essere incluso o escluso in una comunità? E, cosa più importante, come possono queste strutture trasferirsi in un mondo in cui la società vive quasi interamente online?

Tra l’inizio e la metà degli anni Sessanta, un movimento giovanile iniziò a diffondersi nei campus universitari degli Stati Uniti. Si trattava in gran parte di individui giovani, bianchi e di classe media che si sentivano alienati dal materialismo e dalla repressione della società dominante. Erano sostenitori della vita in comune, del vegetarianismo, dell’uso di droghe ricreative e della liberazione sessuale; portavano i capelli lunghi e indossavano abiti svolazzanti e non convenzionali. Sebbene alcune parti della comunità finissero per essere associate ai movimenti contro la guerra e per i diritti civili, molti hippy e figli dei fiori, in generale, mantenevano una fredda distanza dalla politica, preferendo invece abbracciare ideali filosofici e religiosi (di provenienza orientale), di amore e onestà.

Uno degli aspetti più caratterizzanti degli hippy era il loro legame con gli stili psichedelici e folk rock. Gli artisti che si sono associati a questi stili includono Grateful Dead, Love, The 13th Floor Elevators, Jefferson Airplane e i Mamas & the Papas. Sebbene questi artisti fossero o meno hippy, hanno creato musica che si nutriva dei loro valori e dell’atmosfera culturale e, a loro volta, gli hippy si sono rispecchiati nella loro musica. Nel 1967, John Phillips dei Mamas & the Papas ha scritto la canzone San Francisco (Be Sure to Wear Flowers in Your Hair), che è stata registrata da Scott McKenzie ed è diventata un enorme successo pop, simbolo di un’era definita “Summer of Love”. Sebbene la musica non abbia necessariamente creato la cultura, era innegabilmente intrecciata con i valori e le convinzioni della comunità. Come due organismi che avevano stabilito una relazione simbiotica reciproca, la musica e la cultura degli hippy erano diventate interdipendenti.

Questa relazione tra musica e cultura è osservabile in molti diversi tipi di sottoculture. Una delle sottoculture più travisate e fraintese ha avuto origine nei primi anni Ottanta. Non era esattamente punk, e non era esattamente metal, ma qualcosa di completamente diverso. Caratterizzato da melodramma, poeticità macabra e un inquietante senso di malinconia e tristezza, il goth rock (o semplicemente goth) è stato un’influenza prevalente sulla musica alternativa durante gli anni ‘80 e ‘90, ma oggi è stato ampiamente ridimensionato e confuso con numerose altre sottoculture e stili musicali alternativi.

Il goth come cultura ha iniziato a nascere già negli anni ‘70 tra i giovani nel Regno Unito. Erano uniti dai loro interessi per la letteratura e la poesia del XVIII e XIX secolo, il romanticismo e l’occulto. Non avevano una precisa affiliazione politica, ma la cultura stessa emerse sotto il paesaggio urbano post-industriale e il clima politico conservatore dell’Inghilterra del tempo, nutrendo un forte senso di individualità, indipendenza e ribellione dal mainstream. La moda goth includeva pelle e velluto, influenze vittoriane e un’affinità per piercing, capelli tinti e trucco drammaticamente scuro.

Al centro di tutto c’era la musica. Il goth rock era dark, triste e teatrale, con linee di chitarra minime, synth agghiaccianti, distorsioni e voci tipicamente monotone o lamentose. Il suo contenuto pendeva pesantemente verso argomenti mistici, erotici, religiosi e morbosi, con testi profondamente introspettivi e poetici. Tra le band più note c’erano Bauhaus, The Cure, Siouxsie and the Banshees e Sisters of Mercy. La musica era un pilastro della comunità e, come in molte sottoculture, c’era un elemento di esclusività nel senso che la musica fungeva da custode virtuale tra coloro che si appropriavano della cultura e coloro che vi partecipavano. 

Sebbene musica e cultura non fossero sinonimi, ciascuna era parte integrante dell’altra. Oggi, la commercializzazione del goth ha diluito il senso di unità all’interno della comunità; la cultura, un tempo condivisa attraverso interessi individuali nella letteratura e nel misticismo, è stata ridotta a etichetta Spotify generata da fast fashion e AI. Nell’era odierna, Internet ha creato una pletora di ciò che potrebbe essere considerato sottocultura: cottage core, coquette, granola girl, coastal grandma e altro ancora. Sebbene queste “estetiche” abbiano un pubblico, uno stile di moda specifico e persino artisti musicali correlati, sono solo visive, non si basano su un sistema di credenze condiviso, e le persone che vi partecipano non sono unite in una comunità. 

Se le sottoculture del passato sono state forgiate attraverso la musica, quelle di oggi si basano puramente sui significanti visivi che gli utenti di Internet possono arbitrariamente etichettare come parte di quella sottocultura. In passato, la cultura non poteva essere derivata semplicemente dal mangiare fiocchi d’avena ai mirtilli o dal mettere nastrini nei capelli; era fondata su una comunità di individui che condividevano valori, esperienze e interessi. Gli hippy erano uniti nel loro disgusto per la carne e gli ideali sociali dominanti, e i goth condividevano l’amore per la letteratura e il romanticismo. 

Sotto l’occhio onniveggente di Internet, i confini tra comunità, sottoculture e persino generi musicali sono diventati sfocati, confondendo distinzioni tra gruppi e alimentando la gigantesca macchina del consumismo. 

Il caso dell’etichetta “indie”

Un esempio importante di ciò è stata negli ultimi anni l’etichetta di musica “indie”. Indie, abbreviazione di indipendente, è nata come etichetta di settore utilizzata per designare la musica “fai da te”, caratterizzata da produzione e distribuzione piccole o indipendenti.

Oggigiorno, tuttavia, è diventato quasi sinonimo di una forma più accettabile di “alternativa” nella coscienza pubblica, e si è trasformato in un genere onnicomprensivo a sé stante, con la sua sottocultura e i suoi sottogeneri (si pensi all’indie rock, all’indie folk e all’indie pop). Mentre gli artisti usano questa etichetta di genere per rivolgersi a un pubblico e ottenere seguito online, altri tendo a prenderne le distanze. Anche band come gli Arctic Monkeys, che raccolgono milioni di stream a ogni uscita e sono supportate dalla Warner Records, sono state ora definite indie. Per i veri artisti indipendenti che contano sulla musica come unica fonte di reddito, l’etichetta che un tempo indicava la loro connessione con la comunità e la distinzione dall’industria musicale commerciale non è più applicabile. I legami con una cultura caratterizzata da reciproco supporto e solidarietà si sono praticamente dissolti.

Il ruolo dei social media nella promozione

I social media hanno anche rivoluzionato il modo in cui gli artisti indipendenti e più piccoli si promuovono. Nel dare agli artisti la possibilità di conquistare un pubblico e raggiungere la fama da casa propria, si è creato un fenomeno chiamato influencer creep, ovvero quando musicisti (e altri tipi di artisti) sono costretti ad agire come creatori di contenuti per promuovere la propria arte e guadagnarsi da vivere. Questo metodo ha alcuni vantaggi: gli artisti possono soddisfare specificatamente il loro pubblico di riferimento attraverso strumenti come gli hashtag e l’ampia portata delle piattaforme dei social media ha il potenziale per una viralità di massa. 

Tuttavia, così facendo, stanno confondendo i confini tra arte e creazione di contenuti. Se non c’è differenza tra un musicista e un influencer il cui unico obiettivo è vendere un prodotto, noi come ascoltatori siamo molto meno inclini a entrare in contatto con questi artisti.

Cambiato rapporto fra artista e ascoltatore

Un altro aspetto delle sottoculture che Internet ha indebolito è il rapporto tra artista e ascoltatore. L’algoritmo delle piattaforme di social media come TikTok ha diluito la nostra connessione e il nostro apprezzamento per gli artisti. Attraverso l’algoritmo, piccole porzioni di canzoni possono diventare estremamente virali e, sebbene molti utenti che scorrono i loro feed possano essere fan di queste clip, potrebbero non avere familiarità con il lavoro dell’artista nel suo complesso. 

Un video che mostrava l’incapacità del pubblico di cantare le parti non virali della canzone Bad Habit dell’artista R&B Steve Lacy è stato ampiamente diffuso nel 2022. Le urla del pubblico nel ritornello sono accostate al quasi silenzio radio che segue, mentre Lacy porge il microfono, chiedendo: “Perché si è fermato?”. Il video, sebbene esilarante, evidenzia un problema molto più grande perpetrato da algoritmi frenetici: non solo gli artisti si esibiscono per un pubblico che non ha alcun legame sostanziale con la loro musica, ma questo pubblico potrebbe anche gonfiare artificialmente le vendite e i prezzi dei biglietti. 

Al di fuori di TikTok, Internet in generale ha anche fatto sì che alcuni artisti si sentissero sempre più alienati dalle loro fanbase. La cantautrice Mitski ha criticato l’uso eccessivo dei telefoni durante i suoi spettacoli, affermando che fa sentire lei e gli altri sul palco come se fossero «consumati come contenuti». Grazie all’avanzamento della tecnologia mobile e delle piattaforme dei social media in generale, molti fan della musica sentono il bisogno di consolidare le proprie esperienze ai concerti registrandole o pubblicando video online. Sebbene possa aiutare gli spettatori a conservare bei ricordi o a creare legami tra loro sui social media, gli artisti potrebbero sentirsi disconnessi dal loro pubblico quando tutto ciò che vedono è un oceano di telefoni. Al contrario, l’artista hip-hop Doja Cat ha ricevuto un’ondata di reazioni negative dopo aver dichiarato che non avrebbe detto “Ti amo” ai suoi fan perché «non li conosce nemmeno».

Mentre Internet può creare una disconnessione tra fan e artisti, può anche causare relazioni parasociali in cui i fan si sentono eccessivamente connessi a un artista e, quindi, ingiustamente autorizzati alla loro attenzione, energia e vita al di fuori della loro carriera. Dagli account dei social media gestiti dal team degli artisti ai detective che scandagliano il web alla ricerca di informazioni private, l’abbondanza di informazioni rese disponibili da Internet ha facilitato la morte di connessioni genuine sia tra fan e artisti che tra i fan stessi. I figli dei fiori degli anni ‘70 e i goth degli anni ‘80 hanno trovato una comunità attraverso interessi, credenze e gusti musicali condivisi, ma sembra che poco di queste basi sia rimasto per gli amanti della musica di oggi.

Nell’era digitale, il ruolo della musica come spina dorsale delle sottoculture si è eroso, lasciando dietro di sé un panorama in cui l’estetica e il consumo dei media oscurano l’ideologia e la connessione. Mentre Internet ha ampliato l’accessibilità alla musica e agli artisti di nicchia, ha anche offuscato i confini tra le sottoculture, riducendo comunità un tempo vivaci a tendenze fugaci facilmente mercificate dalle aziende. Senza i principi che un tempo legavano le comunità musicali, la domanda rimane: possono ancora esistere vere sottoculture? O siamo entrati in un’epoca in cui la musica è semplicemente un altro prodotto, consumato e scartato a un ritmo sempre più accelerato?

Già nel 2010 l’antropologo americano Ted Polhemus aveva avvertito che con l’avvento dei social le sottoculture giovanili non si formano più come una volta: «Viviamo in un mondo ibrido e le culture giovanili tendono a comportarsi in maniera molto mimetica utilizzando elementi di sottoculture diverse. I giovani si muovono come all’interno di un supermercato: raccolgono le scarpe degli skinheads, la giacca dei mods, il cappello dei punk, il comportamento dei ravers. Ci troviamo così davanti a forme non direttamente riconoscibili in un mondo più fluido».

Non è di questa opinione Tim Stock, professore di analisi delle tendenze e design thinking alla Parsons School of Design e co-fondatore della società di consulenza previsionale ScenarioDNA. È anche una delle menti dietro a Culture Mapping: un innovativo strumento informatico supportato dall’intelligenza artificiale che, attraverso l’analisi del linguaggio online, consente di individuare e caratterizzare le ineffabili sottoculture giovanili dei nostri giorni. «Molte sottoculture nascono oggi attorno al desiderio, particolarmente forte nella Gen Z, di far piazza pulita di ogni sorta di stigma culturale, soprattutto di quelli legati a una visione occidente-centrica o patriarcale del mondo, andando spesso a recuperare e valorizzare aspetti della nostra cultura ingiustamente considerati di serie B, e a lungo finiti nel dimenticatoio», spiega. «Ne è un esempio l’effervescente sottocultura Afro Beat formatasi negli ultimi anni a Londra attorno agli artisti Moses Boyd, Nubya Garcia, Comet is Coming, Sons of Kemet e Kokorokoko, che dimostra un nuovo interesse per l’Africa. Oppure la sottocultura sorta attorno alla riscoperta della stregoneria e altre pratiche neo-pagane (basta digitare #wicca per rendersene conto, ndr), alla quale oggi aderiscono soprattutto le giovanissime. Non un rigurgito di superstizione in un’epoca parca di punti fermi, bensì un autentico fenomeno di controcultura dove la magia, celebrata come emblema dell’elemento femminile ingiustamente represso nel corso dei secoli, assurge a strumento di rivendicazione femminista anti-patriarcato».

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