– Il pianista e compositore romano mette assieme un formidabile quartetto con Javier Girotto ai sassofoni e flauti, Jacopo Ferrazza al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria
– Il disco «è un po’ un mio diario personale», sintesi delle esperienze dell’autore nel jazz, nella classica, nel teatro, nel cinema, in Francia e con la musica sudamericana
Quelle che, apparentemente, sembrano due strade parallele – classica e jazz – Francesco Venerucci le ha fatte incrociare sin dagli studi, conseguendo una laurea in “Composizione jazz” al conservatorio Santa Cecilia e un diploma in “Composizione classica”. Non solo. Il musicista e compositore romano ha fatto incontrare questi percorsi con altre strade. Ha ottenuto un master di secondo livello post laurea in “Composizione teatrale” e un altro in “Composizione di opere”, ha frequentato i Conservatori parigini, ha scritto musiche per balletti, si è innamorato del tango diventando uno tra i più richiesti arrangiatori delle musiche di Astor Piazzolla.

Tutte o, comunque, gran parte di queste esperienze confluiscono nell’album Indian Summer, un elegante e mai banale girotondo attraverso tante influenze: jazz, funk, latin music, classica, echi di Sudamerica, una spruzzata di profumo francese.
«Sono brani che ho scritto negli ultimi due anni, pezzi che aspettavano di essere registrati da molti anni. È un po’ un mio diario personale e tutti i miei dischi sono fatti così. Un disco di sintesi, c’è una scrittura nel comporre questi pezzi che, da una parte, ha un che di cinematografico, di cinematico, dall’altra di molto romantico, poetico. Perché c’è questo mio piacere di scrivere musica in relazione con altre arti, che possono essere la danza, il balletto, l’opera, la prosa, le storie letterarie, la poesia, la pittura. La mia è una musica che interagisce molto e, se non c’è un legame diretto, sembra voler richiamare delle sottostrutture con cui interagire. Magari non si evince sentendo il disco, però fa parte delle mie attitudini naturali e, quindi, c’è anche in questo disco».
Ad esempio?
«È il caso de I funamboli: l’ho scritto pensando ad alcune scene del film Les enfants du Paradis di Marcel Carné del 1945, in cui c’è questo spettacolo in piazza durante la Rivoluzione francese di un Arlecchino muto che pur non parlando riesce ad interagire. Riassumere tutto ciò in un pezzo di musica non è facilissimo, però ci ho provato con questo breve brano che sembra un valzer alla Bill Evans o alla Michel Legrand. E poi Indian Summer oppure Lament hanno delle visioni che aprono a delle immagini».

È un disco orientato verso il contemporary cool jazz.
«Mi sono attenuto a delle forme idiomatiche abbastanza note, sono tutti brani con temi e strutture molto intellegibili, il fatto di essere in quartetto, dove c’è la voce solista del sax di Javier Girotto, con cui sono in dialettica molto spesso, è una forma canonica. Non ci sono particolari stranezze, ci sono brani che si vogliono fare apprezzare e sentire semplicemente nella loro essenza».
Evita virtuosismi, preferisce dialogare con gli altri musicisti e lasciare loro talvolta il ruolo di protagonista. Musicisti del calibro di Javier Girotto ai sassofoni e flauti, Jacopo Ferrazza al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria.
«Il pianoforte per me è una esperienza centrale. Ho lavorato molto con il pianoforte solo, in concerti e registrazioni, ma bisogna essere bravi a capire quando devi fare il sideman e quando devi accompagnare: è bene poter fare i solisti, ma devi essere altrettanto bravo a sostenere gli altri solisti».

Perché il titolo Indian Summer?
«Indian Summer è una traduzione dell’estate di San Martino, sarebbe l’estate indiana, quei giorni di calore che vengono nei momenti d’inverno in cui non sono attesi e riportano un po’ quel calore e quella memoria di un periodo estivo. È una metafora della vita: in tutti noi, nelle nostre vite, possiamo passare dei momenti difficili, ma conservando la memoria di altri momenti più felici possiamo andare avanti e costruirci un futuro».
Lei ha composto tre opere liriche, c’è spazio in questo mondo abbastanza conservatore per un rinnovamento nei temi e nelle musiche?
«La prima, Sogno di una notte di mezza estate, tratta da Shakespeare è stata rappresentata in forma di concerto in un concorso internazionale ad Atene, in cui ho vinto il terzo premio nel 2001. Un’altra, Kaspar Hauser, su libretto di Noemi Ghetti, è la tesi di laurea nel master post laurea secondo livello Accademia dell’Opera di Verona, rappresentata con coro, solisti, orchestra, scene, costume regia a Tirana nel 2011. In seguito al successo, il direttore dell’epoca mi commissionò un’opera per l’anno seguente, in coincidenza con le celebrazioni del centenario della dichiarazione d’indipendenza dell’Albania. Volevano fare una operazione culturale molto particolare, in quanto Vivaldi nel 1718 aveva composto un melodramma dal titolo Scanderberg, che sarebbe l’eroe storico, eponimo, leggendario alla base dell’identità albanese. L’opera di Vivaldi, però, era andata perduta a parte quattro arie. Quindi mi hanno chiesto, a partire dal libretto che è stato rivisto e riscritto da Quirino Principe, di celebrare questa ricorrenza scrivendo un nuovo Scanderberg. Venne fuori un’altra opera in due atti che venne messa in scena davanti alle massine autorità nel 2012. Insomma, sono stato uno dei pochi italiani che nell’arco di due anni ha scritto, composto e messo in scena due opere nuove. Purtroppo, in Italia di queste occasioni ce ne sono poche. Normalmente non si dà molto spazio alle nuove opere. I pochi casi si contano sulle dita di una mano. Eppure, sarebbe auspicabile».