Disco

Il jazz “noir” dell’eroe solitario Giacomo Pedicini

– Il musicista e compositore, fra i bassisti più apprezzati e richiesti della scena musicale non solo italiana, pubblica l’album “Hard Boiled”. «Un processo creativo, fatto di strati che si sovrappongono uno dopo l’altro»
– «Ho lavorato registrando ogni singolo strumento senza mai fermarmi a ripetere qualche parte. In una fase di post-produzione, ho scelto di sporcare maggiormente il suono in una visione più elettro-acustica, addirittura punk»

Hard Boiled è un titolo che svela da subito l’anima profonda di questo progetto. Il compositore, il versatile e richiestissimo bassista napoletano Giacomo Pedicini s’immedesima nei protagonisti appartenuti alla letteratura “noir” o, appunto, “hard boiled”: investigatori dal carattere rude e disincantato che non si limitano soltanto a cercare di risolvere i casi, ma che lo fanno affrontando pericoli e situazioni violente, risse, inseguimenti, sparatorie, caos. 

Come i personaggi di Raymond Chandler e Dashiell Hammett, il musicista partenopeo appare come un eroe romantico, solitario e disilluso, che insegue le tracce di una nota dentro il proprio immaginario. I pezzi sono scuri e crogiolanti, bruschi e lunatici, facendo eco al tocco nero o, meglio, “noir” del titolo. Il Caos si trasforma in Caso. Il Caos che libera il compositore, il Caso che lo stupisce e meraviglia.

La copertina dell’album “Hard Boiled” di Giacomo Pedicini

D’altro canto, la copertina, raffigurante un’opera del padre Gerardo, intitolata “Riflesso”, sembra rimandare alla pagina di un libro antico, alle origini della scrittura o della musica. «È una immagine in cui le lettere si affannano attraverso la loro superimposizione», spiega Giacomo Pedicini. «Mi sembrava l’elemento visivo più giusto per rappresentare il mio processo creativo, fatto di strati che si sovrappongono uno dopo l’altro. Infatti, il disco è completamente suonato da me, proprio rispettando questa composizione ipoteticamente fatta a strati. Ho lavorato registrando ogni singolo strumento dall’inizio alla fine senza mai fermarmi a ripetere qualche parte».

«Ho registrato il contrabbasso come primo strumento e dopo qualche tempo il Rhodes, poi la batteria e infine la chitarra», continua il compositore. «Nei lassi di tempo tra una registrazione e l’altra il mio unico obiettivo era quello di non ascoltare niente di ciò che avevo registrato e soprattutto dimenticare, così da avvicinarmi alla registrazione dello strumento successivo in modalità “tabula rasa”. In una fase di post-produzione, ho scelto di sporcare maggiormente il suono in una visione più elettro-acustica, addirittura punk, per creare maggiormente un senso di sorpresa e straniamento».

Nelle note di presentazione dell’album,  pubblicato per la Liburia Records, scrivi che «c’è sempre un concetto unificante che lega insieme i brani, gli elementi a primo ascolto disparati si collegano ad un unico soggetto drammatico». Qual è in questo: il caso o il caos?

«Gli elementi si collegano fra di loro proprio attraverso questo binomio Caos/Caso. Il “Caos” inteso come libera espressione che parte dall’interno senza procedimenti accademici, un “Caos” che dialoga con quello che io penso sia la parte più “desertica” che abbiamo dentro, che si trasforma in “Caso” inteso come coincidenza/combinazione che fa in modo che le varie parti si trovino in perfetto dialogo tra di loro».

Giacomo Pedicini ha lavorato con on Sting, Peter Gabriel, Terence Trent D’Arby, Richard Galliano, Susanna Baca, Lura, José Feliciano, Carl Anderson, Kenny Barron, Bobby Durham, Nino Buonocore, Joe Barbieri, Carmen Consoli, Giovanna Marini, Jorge Drexler, Fabrizio Bosso, Mario Venuti, Paolo Fresu, Angelo Debarre, Marcello Colasurdo, Alim Qasimov

Fra le fonti di ispirazione, citi Frank Zappa, Igor Stravinsky, Charles Mingus, James Joyce, Miles Davis, David Lynch, Carmelo Bene. A questi aggiungerei il free jazz, Derek Bailey e molta discografia ECM. 

«L’ECM sicuramente è molto importante come etichetta e come sviluppo di un jazz “europeo” e contaminato da svariati stili. Le ispirazioni che ho citato riguardano chiaramente la mia personale crescita e ricerca. Ho nominato Carmelo Bene, James Joyce proprio perché il loro modo di intendere la creatività mi ha aperto lentamente, goccia dopo goccia, la strada per arrivare a questa concezione, e a questa vena compositiva. Mingus sin da giovane mi ha passato un senso di libertà creativa nella musica improvvisata, ed è lui in realtà l’idea di free che preferisco. Zappa con Lumpy Gravy che ho ascoltato la prima volta da sedicenne, Davis con Kind of Blue o Bitches Brew e Strawinsky, diretto specialmente da Boulez o da Bernstein, mi hanno fatto passare notti piacevolmente insonni».

Modelli, quelli tirati in ballo da Pedicini, che sottolineano la versatilità e la duttilità di un musicista che conta collaborazioni con Sting, Peter Gabriel, Terence Trent D’Arby, Richard Galliano, Susanna Baca, Lura, José Feliciano, Carl Anderson, Kenny Barron, Bobby Durham, Nino Buonocore, Joe Barbieri, Carmen Consoli, Giovanna Marini, Jorge Drexler, Fabrizio Bosso, Mario Venuti, Paolo Fresu, Angelo Debarre, Marcello Colasurdo, Alim Qasimov. Per non parlare delle sue incursioni nel cinema.

«Sono collaborazioni che hanno vari periodi storici… Con Terence Trent D’Arby ho avuto la fortuna di condividere il palco per una tournée italiana nei primi anni Duemila, in quel periodo collaboravo con il Teatro San Carlo di Napoli e il suo coro, e come ospite dei concerti scelsero Terence Trent D’Arby (all’epoca si faceva chiamare Sananda). Rispetto a Peter Gabriel, ho avuto la fortuna di collaborare con il gruppo Spaccanapoli prodotto dalla sua Real World per ben sedici anni. E in più di un’occasione abbiamo avuto la possibilità di aprire i concerti di Peter Gabriel e condividere il palco con lui. In ultimo ho avuto la possibilità di collaborare con Sting per le registrazioni di Fragile che si trova nel documentario girato dalla moglie».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *