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I 20 MIGLIORI ALBUM DEL 2024

È stata una scelta difficile quest’anno. Tre dischi avrebbero meritato l’ex aequo, ma alla fine abbiamo voluto rendere omaggio a un grande musicista e uomo che oggi non c’è più

20 

Amyl and The Sniffer – “Cartoon Darkness”

«In questo momento penso che siano la migliore rock band del pianeta», dice Nick Launay, produttore di Cartoon Darkness  che ha spesso lavorato con artisti rock moderni come Yeah Yeah Yeahs, Idles e Nick Cave, e con una carriera che risale alle prime scene punk e postpunk del Regno Unito. «Se fossero stati in giro negli anni Settanta, sarebbero stati altrettanto importanti allora», assicura. Sul palco Amy Taylor è una scheggia impazzita. L’acconciatura piumata dei primi anni Ottanta di Taylor e l’espressione maniacale riportano alla mente la copertina della fotografa Ellen von Unwerth della regina del ballo di fine anno dell’album Live Through This delle Hole del 1994. Tra una canzone e l’altra, si scaglia contro qualcuno condannato per violenza sessuale che diventa presidente degli Stati Uniti. Ma si chiede quanti altri ci siano là fuori, non condannati, «che gestiscono merda e noi non lo sappiamo». La sua conclusione? «Brucialo fino al suolo! Tirate fuori le tette! Vivi la tua vita!».

19

Fontaines DC – “Romance”

L’ambizione della band irlandese cresce a ogni uscita, e con questo quarto album puntavano alle arene. Forse c’è qualcosa di un po’ troppo difficile, troppo poetico, ma anche troppo sarcastico,  per farli arrivare alle folle dei grandi spazi. La triste ballata assurdamente chiamata Horseness Is the Whatness ha un ritornello che non puoi credere che qualcuno non lo abbia mai scritto prima, mentre Favourite è davvero un inno da stadio, qualcosa che suona meglio a ogni birra che bevi, finché non ti ritrovi a gettare un braccio attorno alle spalle di uno sconosciuto.

18

Sprint – “Letter To Self’”

Rock elettrizzante che ti sfida ad affrontare le tue emozioni più profonde. Quello che NME ha detto: «Questo è un album dinamico che riflette il mondo confuso in cui ci troviamo, consegnato con un fortificante senso di onestà da una band emergente».

17

Hurray for the Riff Raff – “The Past Is Still Alive”

Alynda Segarra, alias Hurray for the Riff Raff, si definisce “non binaria” ed ha trascorso l’adolescenza a fare l’autostop ed a cavalcare le rotaie attraverso gli Stati Uniti, a volte eludendo la polizia. Di origini portoricane, il viaggio di Alynda Segarra è iniziato nel Bronx, in casa dei suoi zii, dove è cresciuta. Nell’album The Past Is Still Alive, Hurray for the Riff Raff è alle prese con il tempo, la memoria, l’amore e la perdita, «l’ho registrato un mese dopo aver perso mio padre». Alynda riflette sugli anni di vagabondaggio che seguirono una volta che l’artista uscì di casa. Segarra ora ha 36 anni, e The Past Is Still Alive distilla le sue esperienze in una raccolta di canzoni che colpiscono dritto al cuore, senza mai cedere ai cliché. È un album arrabbiato, ansioso, amorevole e audacemente vulnerabile, una missiva di un mondo con cui lottiamo per capire. Ed è dolcemente, incredibilmente stupendo, apice della sua carriera discografica.

16

Arab Strap – “I’m totally fine with it 👍 don’t give a fuck anymore 👍”

Quando gli Arab Strap sembravano sempre fuori passo con le tendenze indie-rock, il nuovo album del duo scozzese non avrebbe potuto essere meglio in sintonia, e non solo perché l’attuale panorama indie del Regno Unito è sovraffollato da artisti avversi alla melodia, ma per la quantità di generi suonati e il modo in cui sono mescolati insieme. Non appena pensi che sia una nota o ti stancheresti con la consegna oppressa, la cambiano.

15

Halsey – “The Great Impersonator”

L’opera segna una svolta nella carriera musicale di Halsey. Oltre ad essere il più lungo della sua carriera, il disco rivisita quattro decenni musicali, dalla fine dei Sixties al Duemila. La trentenne artista del New Jersey dalle origini italiane come lascia trasparire il suo nome Ashley Nicolette Frangipane, si immagina infatti nei panni di artisti di epoche diverse: Kate Bush, Cher, David Bowie, Britney Spears… È un’esplorazione del tempo e del destino, e di che tipo di artista Halsey sarebbe stata se fosse esistita in decenni diversi. La star, al crocevia dei generi, attinge sia alle sonorità pop (Lucky, un’interpolazione del titolo omonimo di Britney Spears), come rock (il titolo Lonely is the Muse), punk (Ego) o country (il tributo lo-fi a Linda Rondstadt in I Believe in Magic). Si possono cogliere riferimenti a Stevie Nicks dei Fleetwood Mac degli anni ‘70, a Bruce Springsteen degli anni ‘80, agli Oasis, Dolores O’Riordan, Third Eye Blind e Portishead degli anni ‘90, e riferimenti del 2000 che spaziano dai Deftones fino ai Radiohead ed ai Postal Service.

14

The Smile – “Wall of Eyes”

«Non pensare di conoscermi», intona Thom Yorke verso la fine del secondo album in studio degli Smile, Wall of Eyes. Aggiunge: «Non pensare che io sia tutto ciò che dici». Con il suo nuovo LP, gli Smile si rendono sempre più sfuggenti. Ora è una band intenta a destabilizzare le strutture e a dissolvere le aspettative. La band è ancora inconfondibilmente uno spin-off dei Radiohead. È il trio formato da Yorke e Jonny Greenwood dei Radiohead, con il batterista jazz britannico Tom Skinner. La voce tormentata di Yorke è rimasta in primo piano, e il songwriting si appoggia alle dissonanze dei Radiohead, ai metri strani e all’aura di ansia completamente avvolgente.

13

The Last Dinner Party – “Prelude to Ecstasy”

Le ragazze sono brave, molto ben dotate. Sanno perfettamente dove stanno andando – citando sia il cinema di Ken Russell che quello di Gregg Araki – e sono, inoltre, molto ben circondate. In particolare, da uno dei manager dei Metallica e, alla produzione del loro primo disco, da James Ellis Ford, uno stretto collaboratore di Gorillaz e Arctic Monkeys. Queste ragazze nostalgiche di un’epoca che non hanno conosciuto hanno già sedotto Nick Cave, Florence + The Machine e i Rolling Stones… Le ragazze si chiamano Abigail Morris, Georgia Davies, Lizzie Mayland, Aurora Nishevci ed Emily Roberts. Tutte londinesi. Il loro primo album si spinge nell’universo stravagante del quintetto britannico, tra David Bowie, Kate Bush, George Gershwin e Joan Jett.

12

Cassandra Jenkins – “My Light, My Destroyer”

Un album così denso di tristezza e isolamento, ma facile da ascoltare. Nonostante le difficoltà della sua gestazione, scivola deliziosamente tra i generi. Nelle prime quattro tracce segue lo stile cantautorale acustico, dalla chitarra di Devotion all’alt-rock distorto di Clams CasinoDelphinium Blue si adagia sul pop progressivo degli anni Ottanta (Blue Nile, Prefab Sprout e i Roxy Music dell’era Avalon) e poi registrazioni sul campo e l’astrazione di Shatner. E, ancora, il soft-rock anni Settanta imbottito di ottoni e ritmi che sbattono sorprendentemente vicino al drum’n’bass. C’è un momento stupendo alla fine di Devotion in cui i testi diventano momentaneamente ottimisti e si viene investiti da un’ondata di ottoni.  La dolce tristezza è una descrizione che si adatta a My Light, My Destroyer

11

Sleater-Kinney – “Little Rope”

Sleater-Kinney sono sinonimo di afferrare un senso di sé e strappare modelli patriarcali per ristrutturare l’ordine rock’n’roll. Il loro “Great Feminist Songbook” include mortalità, dolore e morte: lo standard punk gutturale Good Things, l’appello dalla stanza d’ospedale The Size of Our Love, l’immagine di un suicidio su Jumpers. Sleater-Kinney hanno raramente sondato tali serbatoi autobiografici di tristezza come fanno su Little Rope, rispondendo non solo alla perdita ma anche all’insicurezza, alla disperazione sociale e alla depressione. 

10

Fabiana Palladino – “Fabiana Palladino”

Fabiana Palladino, nonno di Campobasso, figlia d’arte, il papà Pino Palladino è stato uno dei bassisti più richiesti dagli anni Ottanta ai Duemila, ha una figura sorprendentemente sobria, data la statura del suo album di debutto, che ha scritto e prodotto, e che rinnova alcuni dei suoni più iconico del pop anni Ottanta. Gli spiriti di Prince, Janet Jackson, Jimmy Jam e Terry Lewis riecheggiano in queste canzoni, con i loro arrangiamenti lussureggianti e sbilenchi, voci che pizzicano la pelle e un funk febbrile e secco. Eppure, trascende il pastiche, sia per la qualità della scrittura dei testi sia per gli arrangiamenti spesso minimali che parlano di tempi molto meno ristretti rispetto all’era opulenta delle influenze di Palladino. 

9

Beth Gibbons – “Lives Outgrown”

Completato a Bristol e Londra nei due anni successivi, e con James Ford, produttore di Blur, Depeche Mode, Arctic Monkeys, che contribuisce musicalmente, l’album finito, senza synth, include arrangiamenti d’archi classici contemporanei, il violino di Raven, nipote di Kate Bush, e una miriade di trame acustiche, tra cui un basso cinese ruan, dulcimer martellato e fiati di legno a strati. Floating On A Moment presenta i figli di Gibbons ai cori. È un disco che esplora l’invecchiamento, la maternità, la perdita e il suo senso di sé in evoluzione come donna in post-menopausa. «Molte persone che conoscevo sono morte», commenta Beth. «Quando sei giovane, non sai mai il finale, non sai come andrà a finire. Pensi: andremo oltre questo. Andrà meglio. Alcuni finali sono difficili da digerire. Prima avevo la sensazione di poter cambiare il mio futuro, ma quando sei di fronte al tuo corpo, non puoi fargli fare qualcosa che non vuole né può fare.  Ed è una tristezza che non avevo mai provato».

8

Billie Eilish – “Hit Me Hard e Soft”

Hit Me Hard e Soft, rispecchiando il titolo, svolazza tra dance-pop più dura, drammatica, per poi lasciarsi avvolgere da influenze classiche e momenti emotivi, spesso nello spazio di una singola canzone. L’Amour De Ma Vie (francese per “l’amore della mia vita”) è la bugia che – rivela Eilish – ha detto a qualcuno: comincia come una confessione di inganno sulle note di un vecchio valzer, segue poi un hyper-pop. Attinge a una tavolozza di influenze completamente diverse. È uno di quei lavori long seller, da ascoltare più volte. In un anno segnato da uscite frettolose, mal curate, poco eccitanti e francamente compiacenti di alcune delle più grandi star del pop mainstream, questo tipo di originalità e l’assunzione dei rischi è davvero ben accolta.

7

Arooj Aftab – “Night Reign”

Unendo poeti urdu del XVIII secolo e Rumi, parole di un amico e standard jazz, il quarto album di Arooj Aftab lancia un incantesimo che porta queste tradizioni disparate in un insieme singolare e spettrale. A volte, come con le voci vicine e il pianoforte pesante di Na Gul, è incredibilmente arioso; altre, come le corde pizzicate ferocemente intricate di Last Night Reprise, frenetiche. Entrambe le modalità sono completamente avvincenti. La bellezza dell’esecuzione e degli arrangiamenti è spesso ultraterrena: l’arpa sulla lugubre Raat Ki Rani ondeggia ampiamente contro il peso corporeo della canzone. Nonostante tutti gli arrangiamenti sorprendenti e idiosincratici altrove, la semplice intimità conversazionale di Whiskey pizzica le corde più profonde del cuore.

6

Nilüfer Yanya – “My Method Actor”

La protagonista con il cuore spezzato del quarto album della cantautrice britannica è vuota dentro, sanguinante; l’anima è assente, l’amnesia regna sovrana. La bellezza sta nel modo in cui riesce a far percepire questo stato di desolazione opulento come un palazzo in rovina. La tavolozza è febbrile, umida come i tropici o come i momenti più sensuali di Sade; la chitarra furtiva e furtiva di Yanya improvvisamente annientata da sacche di rabbia violenta, la sua voce solitamente composta che tradisce ogni ferita inflittale. È uno degli album meglio arrangiati dell’anno: corde applicate giudiziosamente aumentano il senso di sospetto e devastazione, e la tensione e le transizioni ti intrappolano proprio lì con lei sul filo del rasoio. “Nemmeno io sono qui”, canta Yanya nella stupenda Binding con una voce assolutamente unica.

5

St. Vincent – “All Born Screaming”

All Born Screaming è un album eccitante, rivoluzionario, alieno.  Presenta un sacco di chitarre e di sintetizzatori analogici degli anni Settanta e Ottanta. Suona urgente e psicotico, con un’atmosfera di grande intensità. Urgente e psicotico in parti uguali. È un suono di alta qualità. Per All Born Screaming, St. Vincent (pseudonimo di Anne Erin Clark, cantante e chitarrista nata Tusla nel 1982)  è tornata alle origini e ha tratto ispirazione da «quel tipo di rock che è la prima musica che ho sentito come se fosse mia, e non musica di un’altra generazione». Mescola Nine Inch Nails, red Hot Chili Peppers, Foo Fighters, Tori Amos e Kate Bush. 

4

Cindy Lee – “Diamond Jubilee”

Il capolavoro di 32 tracce dell’alter ego glamour del musicista canadese Patrick Flegel ha colpito la scena come un vecchio film in cui un misterioso vagabondo si presenta con la sua chitarra per dare nuova vita a una città assonnata. Due ore di ascolto senza pause tra le tracce, Diamond Jubilee sembrava fluttuare da un altro luogo e tempo. Potresti seguire le sue melodie malinconiche fino alle Ronettes e ai Righteous Brothers, fermandoti lungo la strada al soul della Motown o alle distorsioni dei Velvet Underground o dal cool di una band in un film di Russ Meyer alla scena dei blog di fine anni Zero, quando gli artisti indie distorcevano i suoni pop retrò come se i giovani millennial urbani avessero rivisto Twin Peaks tutti insieme. Le canzoni di Cindy Lee parlano d’amore, soprattutto di quello perduto. Lei è sola, è triste, sta viaggiando sul Greyhound verso il confine canadese con nient’altro che i suoi ricordi; sta urlando sulla sua chitarra rosso ciliegia con il tipo di padronanza disinvolta generalmente riservata a coloro che hanno stretto patti col diavolo. Nessuno avrebbe potuto prevedere che questo disco tentacolare e fuori dal tempo, autoprodotto da un’artista che ha optato quasi del tutto per il paradigma di marketing e distribuzione dell’era dello streaming, sarebbe diventato la “storia indie rock dell’anno che fa stare bene”, secondo i titoli delle pubblicazioni musicali. È difficile dire se il sentimento fosse condiviso da Flegel, che ha annunciato sul palco in uno degli spettacoli successivamente sold-out: «Mi sento come un fottuto animale in gabbia», prima di annullare completamente il tour. E tutto ciò che ci rimane di Cindy Lee è la musica, che riecheggia come un ricordo di un’altra vita. Ma, forse, è così che dovrebbe essere.

3

The Cure – Songs of a Lost World

“Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo / Il fuoco si è spento in cenere e le stelle si sono offuscate per le lacrime”. Comincia così, con i versi di Alone, il nuovo album dei Cure: Songs of a Lost World, prima raccolta di inediti della band da sedici anni a questa parte. Un disco maestosamente desolato, nel quale Robert Smith è un musicista che opera all’apice dei suoi poteri malinconici. È un ascolto meravigliosamente cupo in cui il cantante fa i conti con la morte dei suoi genitori e di suo fratello, Richard, in un lasso di tempo relativamente breve. Lutti che lo hanno condotto in una nuova realtà. Ma se la perdita può aver scatenato un’ondata di creatività, per altri versi questo è un progetto intriso del DNA sentimentale dei Cure. Grandi e magnifici drift di chitarra, ritmiche possenti, atmosfere oniriche rievocano tutto il loro migliore repertorio dalla foschia stoica di The Head on the Door, il loro album del 1985, e Disintegration, del 1989, mentre la pura e martellante tristezza dei testi lo colloca accanto a Pornography, il loro LP del 1982, come uno dei momenti più cupi dei Cure.

2

Nick Cave – “Wild God”

Elaborato il lutto, Wild God è l’album della rinascita, della riscoperta della gioia, e vede il ritorno dei Bad Seeds in tutta la loro gloria dopo una serie di dischi più volutamente minimali nei quali Nick Cave ha collaborato principalmente con Warren Ellis. C’è un nuovo Bad Seed nel gruppo, il suo nome è Colin Greenwood, e di solito si trova a suonare il basso con i Radiohead. È solo di passaggio – il bassista titolare Martyn P. Casey sarà in tour con la band entro la fine dell’anno – ma la sua presenza aggiunge grande fluidità e dinamismo al suono della band, rendendolo potente e contagioso. Il risultato è un grande disco, audace e dal suono sicuro di sé. Wild God è uno dei miglior album dei Bad Seeds, anche se Ghosteen Skeleton Tree rimangono notevoli pietre miliari che affrontano candidamente lo sconvolgimento del dolore.

1

Ryūichi Sakamoto – “Opus”

Registrato e filmato mentre stava morendo di cancro, Opus di Ryūichi Sakamoto – l’album postumo anticipato da un documentario con lo stesso nome – è il testamento del compositore giapponese. Sono venti canzoni, che fungono sia come una retrospettiva sia come un viaggio attraverso una carriera di mezzo secolo. Il suono di Sakamoto ha un’atmosfera inconfondibilmente asiatica che è difficile da definire, ma evidente attraverso l’utilizzo di determinate armonie, motivi pentatonici o scale. Il suo suono evoca anche Debussy ma, ad essere onesti, è tutto Sakamoto: minimalista nel modo in cui si mostra capace di parlare nei silenzi tra le note. Questa testimonianza della musica di Sakamoto sottolinea l’impegno di un artista per il suo lavoro fino alla fine. L’introduzione all’album recita: «L’arte è lunga, la vita è breve». Opus è album sulla morte, con segmenti, come il brano titolo che termina l’album, che risuonano come una preghiera solenne.

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