– Esce “The Great Impersonator”, album nel quale la trentenne del New Jersey si mette nei panni di icone musicali di vari decenni, viaggiando nel tempo dalla fine degli anni ’60 a oggi, da Stevie Nicks a David Bowie, da Springsteen a Dolores O’Riordan
– È un lavoro influenzato dalla malattia e dalla paura di morire. «Pensavo davvero che questo disco potesse essere l’ultimo», confessa l’artista alla quale è stato diagnosticato il Lupus LES e un raro disturbo linfoproliferativo delle cellule T
– “Muore una storia con il suo narratore?”, chiede ripetutamente nel finale in quello che è l’autoritratto più toccante e drammatico mai realizzati da una cantautrice. E, alla fine è la donna, la mamma, la malata a prevalere sulla “grande imitatrice”
Nel corso della sua carriera, Halsey è stata la diciannovenne dai capelli blu che cantava del suo fidanzato di Brooklyn e dei cieli lilla (Badlands); la ventitreenne di un concept album ispirato a Romeo e Giulietta (Hopeless Fountain Kingdom); la venticinquenne che navigava tra le linee sfocate di Manic; poi la ventisettenne che scavava in un mondo di rock partorito e prodotto da Nine Inch Nails vestiti da Westwood (If I Can’t Have Love, I Want Power). Più recentemente, aveva fatto parlare di sé alla sua performance nel film MaXXXine e cantando il nuovo brano Ego ai VMA dell’11 settembre 2024 in compagnia di Victoria De Angelis, bassista dei Måneskin. Per presentarsi, a 30 anni, nelle vesti di una “great impersonator”, una grande imitatrice.
Per lanciare il conto alla rovescia del nuovo album, dallo scorso 7 ottobre su Instagram l’artista si è divertita a riprodurre scatti di star della musica, da Kate Bush a Fiona Apple annunciando il suo progetto di «fingere di essere un’icona diversa ogni giorno e di svelare un estratto della canzone che ha ispirato».
The Great Impersonator è il titolo del nuovo lavoro. L’opera segna una svolta nella carriera musicale di Halsey. Oltre ad essere il più lungo della sua carriera, il disco rivisita quattro decenni musicali, dalla fine dei Sixties al Duemila. La trentenne artista del New Jersey dalle origini italiane come lascia trasparire il suo nome Ashley Nicolette Frangipane, si immagina infatti nei panni di artisti di epoche diverse: Kate Bush, Cher, David Bowie, Britney Spears…
È un’esplorazione del tempo e del destino, e di che tipo di artista Halsey sarebbe stata se fosse esistita in decenni diversi. La star, al crocevia dei generi, attinge sia alle sonorità pop (Lucky, un’interpolazione del titolo omonimo di Britney Spears), come rock (il titolo Lonely is the Muse), punk (Ego) o country (il tributo lo-fi a Linda Rondstadt in I Believe in Magic). Si possono cogliere riferimenti a Stevie Nicks dei Fleetwood Mac degli anni ‘70, a Bruce Springsteen degli anni ‘80, agli Oasis, Dolores O’Riordan, Third Eye Blind e Portishead degli anni ‘90, e riferimenti del 2000 che spaziano dai Deftones fino ai Radiohead ed ai Postal Service.
Ashley Nicolette Frangipane, la donna dietro l’artista
«Pensavo davvero che questo album potesse essere l’ultimo», ha detto lo scorso 27 settembre svelando il trailer del suo nuovo album su YouTube. rivela di aver scritto The Great Impersonator in un periodo in cui era «tra la vita e la morte».
L’annuncio di quello che sembra essere il progetto più personale dell’artista è arrivato con la notizia che ad Halsey era stato diagnosticato il Lupus LES e un raro disturbo linfoproliferativo delle cellule T. Anche se il disco tratta di fama, amore e famiglia, la morte è di gran lunga la sua più grande preoccupazione; ovunque. Halsey è alle prese con la propria mortalità in termini molto meno astratti di quanto non abbiano mai fatto prima.
Nell’apertura di sei minuti, Only Living Girl in LA, valutando gli effetti negativi della celebrità e come potrebbe sopravvivere a loro. In Dog Years, ispirato a PJ Harvey, è cattiva ma disperata, implorando una «uccisione pietosa». Implora qualcuno di amarla nonostante la sua malattia in The End, ricordando il partner che l’ha lasciata in I Never Loved You. Ci sono il ragazzo morto della città natale congelato nel tempo (Hometown, omaggio a Dolly Parton), le sue paure di morire da sola nella spettrale Darwinism, influenzata da Bowie, e un po’ di esistenzialismo ingannevolmente ottimista (Lucky). Ci sono anche tre “lettere a Dio”: espressioni delle mutevoli percezioni di Halsey sulla malattia e sulla morte.
L’epilogo eccentrico e macchiato di Björk arriva con la title-track. “Muore una storia con il suo narratore?”, Halsey chiede ripetutamente. La vita è diventata più fragile, più preziosa, sia a causa di suo figlio che delle sue diagnosi. Quelle preoccupazioni pratiche e personali nuotano tra la fama e il discorso delle celebrità che hanno scandito gran parte della sua vita professionale: avverte come gli applausi possano annegare le grida di aiuto, sperando che i giornali almeno scrivano correttamente il suo nome quando se ne sarà andata.
The Great Impersonator è uno degli autoritratti più toccanti e drammatici mai realizzati da un’artista. Si candida a disco dell’anno.