– Esce “Down in the Valley”, il nuovo lavoro del compositore napoletano, è una sorta di viaggio in un mondo caotico, ascoltato come suono e il cui suono è immaginato come uno strumento: una fusione di sonorità e rumori con aspetti house. Alla fine, si finisce a ballare in discoteca
– «Ho unito i pochi strumenti tradizionali a registrazioni sul campo, a suoni che noi ascoltiamo giornalmente, molto camuffati». «Dopo questa sorta di discesa negli inferi, il secondo volume di questo progetto è la risalita dalla vallata e la voce umana diventerà protagonista»
Non è una discesa dantesca agli inferi, ma quasi. Giacomo Pedicini, compositore, bassista, arrangiatore e produttore che ha collaborato con popstar di fama internazionale, compositori minimalisti, giganti del jazz e dell’indie rock, innovativi improvvisatori, musicisti elettronici e registi, dopo aver campionato e fatto decantare suoni e rumori della vita d’ogni giorno, è sceso Down in the Valley per scatenare un rave distopico, tra ritmi dance e synth che delineano i tratti di una società spaventosa e ingiusta.
- Sembra quasi, come la pattinatrice del video di In the Valley of Krominet, che il mondo vada al contrario.
«È il messaggio del disco. Il mondo va al contrario. La tecnologia avanza e l’essere umano regredisce, forse non si chiama più essere umano. Il video comincia dal mare, che è un elemento creativo, che dà vita, per poi andare indietro e, nella parte finale, s’iniziano a vedere i motorini, le macchine, simboli di questo mondo più vicino a noi, più aggressivo. Con questo andare avanti e indietro delle immagini, con questo effetto distorsivo, si vuole indicare che non si capisce dove si sta andando. Siamo sul litorale di Barcellona, mi piaceva l’idea di questa pattinatrice che torna indietro, si ferma, va avanti, ancora indietro. Rappresenta questo momento assolutamente complicato, per noi, per tutti. Anche artisticamente. E quindi torniamo indietro: anche se l’umano si è trasformato in un post-umano, stiamo tornando indietro».

Giacomo Pedicini lo raggiungo al telefono nel suo studio di registrazione nella parte alta di Napoli, «molto simile alla copertina di Underground di Theloniuos Monk». Una sorta di guazzabuglio nel quale si trovano armi, bombe, liquori, un nazista legato a una sedia, una rivoluzionaria e un pianista. Quello del musicista napoletano riteniamo sia meno “esplosivo”, ma caotico in modo eguale. D’altronde, Pedicini è un teorico del caos, come ci spiegò in occasione dell’uscita del precedente album Hard Boiled: «Gli elementi si collegano fra di loro proprio attraverso questo binomio Caos/Caso. Il “Caos” inteso come libera espressione che parte dall’interno senza procedimenti accademici, un “Caos” che dialoga con quello che io penso sia la parte più “desertica” che abbiamo dentro, che si trasforma in “Caso” inteso come coincidenza/combinazione che fa in modo che le varie parti si trovino in perfetto dialogo tra di loro».

- In Down in the Valley, album pubblicato per la Liburia Records, il punto di partenza sembra lo stesso: il binomio caos/caso.
«La struttura è quasi la stessa. Anche questo disco è partito da una sorta di pagina bianca, ma con un piccolo interesse a ricercare le possibilità dei suoni che ci sono attorno. Lavorando su queste registrazioni fatte sul campo, questa pagina bianca ha riesumato il binomio caos/caso, in cui i suoni si trasformano al loro interno e all’interno dei brani, creando nuove sonorità. Sono stato attratto dall’andare fino in fondo a questa indagine e vedere fin dove si poteva arrivare, cercando di unire i pochi strumenti convenzionali presenti. E queste fasce di suoni riuscivano anche a combaciare fra di loro. Alla fine, sono riuscito a raggiungere quello che io sento sia il risultato di questa indagine sonora sulla composizione».
- Il mondo ascoltato come suono e il suono del mondo immaginato come uno strumento. Una fusione di suoni, rumori, registrazioni sul campo, che sembra diventare un rave con aspetti da EDM, house, techno. Alla fine, si finisce a ballare in discoteca.
«Nella prima fase, quando ho cominciato a lavorare in studio, poi mi portavo il lavoro a casa per sentirlo sullo stereo e la mia prima reazione è stata proprio quella di muovermi. È una delle prime sensazioni piacevoli che ho avuto da questo album: l’aver trovato una sorta di quadra fra questa sorta di rave insieme a questi suoni che sono quelli che noi ascoltiamo giornalmente, molto camuffati, ma sono comunque suoni che ci sono attorno. Mi ha fatto piacere notare che la parte ritmica, anche di pancia, non si perdesse. Ci sono già tante opere fatte da musicisti molto esperti sulla musica concreta, sul paesaggio sonoro, che chiaramente hanno una visione molto legata al suono, la mia voglia di fondere anche un elemento così lontano dalla musica concreta mi ha dato grande energia. Il musicista che mi ha aperto la strada verso questa ricerca è l’inglese Matthew Herbert che, negli anni Novanta – era il periodo di Björk, dei Massive Attack – campionava e trasformava il suono direttamente dal vivo. E questa idea è rimasta dentro di me per molto tempo; infatti, molti suoni che ascolti nel disco vengono da periodi molto lontani. E questo si ricollega anche al discorso di lasciar decantare le cose per farle perdere il primo pensiero che ti fai. Quando le riprendi più avanti, prendono una visione completamente diversa. Finché non l’ho portato a casa e non ho fatto un balletto non ero sicuro e convinto di quello che stavo facendo: da quel momento la strada è stata in discesa, molto divertente».

- Down in the Valley è un album distopico. L’unico elemento umano è la voce di Linda Cimmino che spunta solo alla fine e, tra l’altro, in un brano che si intitola Never say it’s over (“Non posso dire che sia finito”) che si tronca di netto all’improvviso.
«Il prossimo disco legato a questo progetto è la risalita dalla vallata. Ed è proprio l’ultimo brano che lo annuncia: la mia idea è quella di riprendere dalla voce che sarà presente nel prossimo album, come linea di unione delle stagioni di questi due lavori. Senza fare grosse analogie con quella di Dante nell’inferno, è una discesa anche mia personale, della situazione attuale in cui è addirittura molto complicato ascoltare quello che abbiamo attorno, anche i suoni che ci circondano. Il mio scopo è di fare questo secondo volume in cui ci sarà la risalita da questa vallata e non ti so dire come andrà a finire. Voglio capire come uscire da questa vallata, da questa sorta di rave da far west: i personaggi sono strani, sono quelli che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana. Ora voglio vedere come risalire con la musica».

- C’è una citazione di Matthew Herbert che accompagna l’album. Recita così: “Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e dobbiamo porci domande serie su noi stessi: qual è il nostro posto come musicisti? Al momento la musica è solo la colonna sonora del consumo; ovunque tu vada, la musica è nei negozi così puoi comprare più cose, dicendo “va tutto bene, il mondo va bene”, e il mondo non va bene – le cose non vanno bene”. Non c’è il rischio che togliendo la parola alla musica, questa diventi sottofondo?
«Quello che intendeva Herbert è come la scena finale del film Blues Brothers, quando John Belushi e Dan Aykroyd prendono con calma l’ascensore – nel quale si ascolta The Girl of Ipanema – fino all’undicesimo piano mentre fuori un enorme esercito corre di qua e di là preparandosi alla guerra. La musica ci deve far star bene, perché la musica è proprio un sottofondo che non deve disturbare. Se disturbasse, ci potrebbe far ragionare. Sento che oggi stiamo patinando troppo, tutta la musica è “alliccata”, molto aggiustata, perché deve rispondere ai canoni degli ascoltatori. Ma chi è questo ascoltatore medio? Se Hard Boiled e questo lavoro possono sembrare una sorta di colonna sonora, in realtà il mio obiettivo è cercare di smuovere quanto più possibile, di far capire che c’è la possibilità di esprimersi in modo diverso rispetto a quello che è il mondo attuale della musica, della cultura, dell’arte. Chiaramente, Down in the Valley non lo metteranno mai nei magazzini Zara, però se un giorno un brano mio o di un altro musicista finisse su Zara… L’importante è di non lasciarsi far ammutolire, perché bisogna assecondare il pubblico. Oggi è più facile far circolare la musica, il problema è quando si punta a conquistare un determinato pubblico: questo sta succedendo in quasi tutti i generi musicali. Anche il jazz ha perso quella qualità sanguigna, ormai è diventato un prodotto patinato. Io devo sempre cercare la mia imperfezione, il mio dubbio, il mio mistero, perché se non cerco queste cose, se non vado a scavare là dentro, sì posso fare una bellissima canzone con una voce e accordi che esistono da un sacco di tempo, posso prendere la cantante più brava, i suoni più spettacolari, il ritornello fatto ad hoc, ma non sarei io, non avrei la capacità di riascoltarmi. Il mio sarà un lavoro di nicchia, ma va bene così…. Dico questo non perché voglio fare il musicista che crea le cose più dissonanti perché fa figo, perché prima di arrivare a chiudere un disco non butto sonorità così tanto per fare l’intellettuale, ma perché individuo che in quel momento quello che sto dicendo rispecchia esattamente quello che penso».
- L’obiettivo resta quello di comunicare con chi ascolta.
«Non serve mettersi su un piedistallo e dire: “Questa cosa non la capite”. Capisco che la gente può rimanere disturbata, perché si aspetta la cosa patinata, perché vuole stare tranquilla. Se riesce ad ascoltare e dire che questa musica dà fastidio vuole dire che ha ascoltato, e questo è già importante. Quindi, non c’è necessità di dare alla gente il Sanremo di turno, perché la gente se dice non riesco ad ascoltarlo, non mi piace, comunque ci prova. Ma se diamo la musica sempre come sottofondo, perde l’abitudine all’ascolto».