Storia

FRATELLI MANCUSO, il racconto del ricordo

– I due musicisti domenica sera in concerto a Ragusa hanno ripercorso la loro storia, dal primo album “Nesci Maria” sino all’ultimo “Manzamà” premiato con la targa Tenco
– «Quello che raccontiamo è il volto della nostra Sicilia in bianco e nero, che abbiamo vissuto nella prima parte della nostra vita, che è una storia di grande amore e crudeltà»
– Lo spettacolo a chiusura della tre giorni dedicata ad Andrea Camilleri. «I nostri ricordi sono sempre mediati dalla fantasia», come quelli dello scrittore agrigentino

Cominciano abbracciati, in piedi. Cantano a cappella, innalzando al cielo la preghiera Ti Preu Maria. Come probabilmente facevano ogni sera prima di andare a dormire quando Enzo e Lorenzo Mancuso furono costretti ad andare in Inghilterra, seguendo il destino di due loro fratelli maggiori. 

«La nostra è una fratellanza che sottintende un’unione spirituale, non solo di sangue», sottolineano Enzo e Lorenzo Mancuso. «Noi ci capiamo al volo e ci sosteniamo l’un l’altro ed è su questo che si basa il nostro modo di cantare, l’unione delle nostre voci. Quello che raccontiamo è il volto della nostra Sicilia in bianco e nero, che abbiamo vissuto nella prima parte della nostra vita, che è una storia di grande amore e crudeltà».

Una storia che comincia negli anni Cinquanta a Sutera, in provincia di Caltanissetta, dove viveva la famiglia Mancuso. «Nostro padre era il mugnaio del paese», raccontano. «Ma negli anni Settanta, quando cominciò il grande esodo degli italiani verso Francia, Belgio e Inghilterra, nostro padre perse molto lavoro, non c’era più grano da macinare visto che i contadini erano tutti espatriati».

Comincia così una vita da migranti. Prima la fonderia, poi la catena di montaggio. A Londra restano quasi dieci anni. Per dare dignità alla loro esistenza, prendono parte alle attività politiche e sindacali. Quando nel 1979 salì al governo Margaret Thatcher quella che veniva considerata la “cellula rossa” finì nel mirino, e Enzo e Lorenzo furono trasferiti nei posti peggiori. A sostenerli c’era la musica, che era anche il mezzo per trovare un filo con il passato, per ricostruire la loro identità maltrattata. Il ricordo e la nostalgia.

Enzo e Lorenzo si siedono. Uno alla chitarra, l’altro alla ghironda. E iniziano a raccontare la Sicilia con Signura Letizia. È il racconto del ricordo di un’isola che non conosce il colore vivido e brillante del mare e degli aranceti della costa, ma il bianco e nero, bruciato dal sole, delle terre desolate e aride del centro: un paesaggio di solitudini e migrazioni, di contadini e minatori, sofferenze e deboli rivolte. Ricordi d’infanzia della Sicilia che si mescolano con i suoni che ascoltavano nelle serate londinesi, con i dischi trasmessi dalle radio. «Ci aiutò moltissimo a Londra un disco di Alan Lomax che comprammo in una libreria a Piccadilly, ascoltarlo per noi fu una fulminazione», ricordano. «In Inghilterra cantare in dialetto ci aveva permesso di dare dignità e senso alla nostra vita. Tenendoci stretti alle nostre radici, esprimeva i nostri sogni».

Il folk anglosassone, il blues, i cantautori cubani, americani, il fado, i ritmi arabi, si mescolano al salmodiare di rosari e alle litanie delle donne nelle processioni, alla sapienza secolare dei lamenti, che contadini e congregati il Venerdì Santo intonavano per esprimere il dramma della passione e della morte. E poi le ninne nanne. E i melodiosi richiami dei venditori ambulanti. E il canto dei suonatori ciechi che nel periodo di Natale andavano di casa in casa a cantare le novene, accompagnandosi con violini o violoncelli che, però, troppo fastidiosi da trasportare, legavano al corpo.

Ed ecco che sul palco vengono raggiunti da una sezione d’archi, da un clarinettista, un percussionista, un contrabbassista e un pianista, fisarmonicista e maestro concertatore, per intonare Timidi l’isuli su’. “Sugnu arrivatu / Viu Messina / Timidi l’isuli su’ / Quannu s’ancontranu / Nun parlanu / Ma di silenziu n’silenziu / ‘N cantu e ‘n chiantu tremanu”. Cantano la nostalgia dei siciliani che attraversano lo Stretto per andare a cercar fortuna altrove.

Enzo e Lorenzo Mancuso la fortuna la trovarono nel 1981 a Città della Pieve, dove ancora stanno. Un amico riesce a riportarli in Italia procurando loro lavoretti nell’edilizia, in campagna. La sera, tuttavia, nonostante la stanchezza della giornata, si tuffavano nella loro passione per la musica. E accadde una sera a Perugia, in una festa de L’Unità, quando presentano il loro primo concerto Canto per una Sicilia Nuova: la condizione dei contadini, l’emigrazione, la mafia, ma anche l’amore, la paura della morte, la solitudine nei brani cantati in dialetto, recuperati dal patrimonio tradizionale o scritti da uno dei due fratelli. «Lì conoscemmo una ragazza tedesca che ci offrì di fare un tour in Germania in piccoli club», continuano a ricostruire. «Poi vennero la Francia e la Spagna dove nel 1986 conoscemmo l’etnomusicologo Joaquin Diaz che ci propose di fare il nostro primo disco. E così cominciò tutto».

La copertina di “Manzamà”

Joaquin Diaz produsse il loro primo album Nesci Maria. A seguire video, lezioni, conferenze, premi, l’incontro col cinema e con il teatro: autori del canto devozionale e loro stessi attori scelti dal regista Anthony Minghella per una scena del film Il talento di mr. Ripley, mentre nel 2004 per l’allestimento scenico di Emma Dante traducono in siciliano le parti del coro della Medea di Euripide e compongono le musiche, da loro cantate in teatro sera dopo sera. Ma soprattutto impegnati in concerti, nella preparazione di nuovi album. L’ultimo dei quali, Manzamà, nel 2021 ha vinto la Targa Tenco per il miglior disco in dialetto. Un album pieno di suggestioni e di atmosfere, splendidamente suonato e cantato, che si avvale anche degli arrangiamenti in quattro brani di Franco Battiato, probabilmente l’ultimo impegno artistico del grande cantautore catanese prima della sua scomparsa. 

«Battiato l’abbiamo incontrato la prima volta nel 1993 quando vincemmo la rassegna della canzone d’autore a Recanati, Franco era nella giuria», dissero in una intervista a Carlo Moretti. «Poi ci siamo incontrati nuovamente nel 1999 al Premio Tenco e ancora nel 2013 quando vincemmo alla Mostra del cinema di Venezia il premio per la Migliore colonna sonora per il film di Emma Dante Via Castellana Bandiera. A quel punto cominciò a seguirci con più frequenza, finché quell’anno arrivammo in Sicilia per il Festival del Cinema di frontiera di Marzameni e Franco ci invitò ad andarlo a trovare nella sua casa di Milo. Fu lì che parlammo del nostro nuovo disco Manzamà, ci eravamo bloccati sull’arrangiamento di quattro canzoni e lui si offrì di occuparsene. Ci confrontammo spesso, via via che le terminava ci mandava le partiture che abbiamo poi fatto suonare a un quartetto d’archi, da aggiungere alle registrazioni che avevamo già realizzato. Come detto, poi ci siamo fermati per questioni personali. Nel 2020, quando il disco era ormai pronto e stampato, glielo abbiamo mandato ma Franco era già molto malato, non sappiamo se sia riuscito o meno a sentirlo».

Con Manzamà i fratelli Mancuso portano ancora più avanti la loro ricerca nel campo del folk italiano, realizzando un affresco che si ricollega alla grande canzone tradizionale e riprende per molti versi un discorso il cui filo passa anche per la produzione di Fabrizio De André, a cominciare dall’album Crêuza de mä. E da Manzamà sono stati tratti molti brani che hanno composto la scaletta del concerto di domenica sera a Ragusa, davanti al Duomo di San Giorgio, nel corso del quale i Fratelli Mancuso hanno ripercorso la loro storia, dal primo album Nesci Maria a Lu munnu bellu con cui vinsero il Premio Recanati nel 1993 ed a Bella Maria del 1997. Spettacolo che ha chiuso la tre giorni dedicata al centenario dalla nascita di Andrea Camilleri. 

Una azzeccata combinazione, perché la Sicilia del papà del commissario Montalbano è molto simile a quella raccontata dai Mancuso, basata sui ricordi del passato, di un piccolo mondo antico, ai quali si sono aggiunti quelli di altri testimoni. «D’altronde i tuoi ricordi d’infanzia e di gioventù sono solo i tuoi e rimangono dentro di te per sempre, in un mondo fantastico che ricostruisci nel tuo immaginario personale ma che è sempre diverso dal calco originale», riflettono Enzo e Lorenzo Mancuso. «I nostri ricordi sono sempre mediati dalla fantasia».

Per i due fratelli, «la musica è un discorso corale come una pellicola», spiegano. «Noi da bambini eravamo testimoni di scene antiche; la quotidianità era il lavoro a stretto contatto con la natura, dove c’era una sintonia arcaica tra uomini e animali e, quando cantiamo, questi ricordi riaffiorano, come appunto in una scena di un film. Chiudiamo gli occhi e ci lasciamo trasportare, le nostre voci entrano l’una nell’altra e la dimensione della nostra musica diventa mistica».

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