Interviste

FRANK MUSKER: i miei lavori con Battisti, Zucchero e Queen

– Il celebre compositore e autore britannico si racconta e svela i dietro le quinte di album come “Una donna per amico”, il “Greatest Hits” di Fornaciari, e, soprattutto, chiarisce il significato della canzone “Too Much Love Will Kill You” scritta con Brian May e cantata da Freddie Mercury
– «Quando registrammo con Zucchero, lui non sapeva parlare l’inglese. Però aveva un grande feeling». «Oggi non credo che i terreni siano fecondi per far crescere la musica buona. La musica è solo uno strumento per fare soldi. Viviamo sotto la dittatura di Spotify e le canzoni si assomigliano»

Frank Musker è un nome che, forse, a molti non dirà molto. Magari, se aggiungiamo titoli di canzoni come Too Much Love Will Kill You dei Queen, Every Woman in the World degli Air Supply e Senza una donna (Without a woman) nel duetto Paul Young e Zucchero (ma ne potremmo aggiungere molte altre di così famose), qualcuno comincerà a identificare Frank Musker in uno dei compositori e autori britannici di maggior successo e riconoscimento internazionale.

Ha contribuito ad alcuni dei dischi più popolari degli ultimi quarant’anni. Ha lavorato con artisti del calibro di Sheena Easton, Chaka Khan, Queen, ma l’elenco è lunghissimo. Tuttavia, è contento del suo anonimato: «Sai, la cosa bella dell’essere un autore è che puoi effettivamente vivere in quel mondo senza dover affrontare tutti i i disagi che comporta il successo», dice. «Può essere piuttosto dannoso. Ho visto molte persone uscire dai binari solo per la pressione di essere riconosciute ovunque. Diventa molto stressante e isolante».

Frank Musker lo sentiamo via whatsapp dalla sua casa nel Regno Unito, dove ormai fa base dopo aver girovagato per il mondo. «Ho vissuto tutta la mia vita in Inghilterra, un po’ in Australia, negli anni Ottanta sono stato per dodici anni in America, a Laurel Canyon. Poi sono rientrato in Europa», racconta. Parla un perfetto italiano, eredità di quella vena di napoletanità che attraversa la sua famiglia: «Mia mamma era italiana, la sua famiglia era napoletana e lei era cresciuta a Genova. Avevo dei cugini italiani che avevo conosciuto all’età di 15 anni e per me erano come dei fratelli. Quindi, sono stato molto attratto dall’Italia e dalla sua lingua: anche se non l’ho mai studiata e questo è un mio cruccio. Però parlando mi difendo».

Forse proprio grazie al fatto di parlare la lingua di Dante, Frank Musker spesso è stato contattato da artisti italiani che volevano dare una impronta internazionale alle loro produzioni e allargare i propri orizzonti oltr’Alpe. Fra questi ci fu Lucio Battisti.

«Negli anni Settanta mi hanno chiamato per lavorare con lui», ricorda. «Per tre mesi sono stato sequestrato con lui in uno studio nella campagna inglese per realizzare Una donna per amico, che è diventato uno dei suoi dischi più famosi. Tra l’altro, è nata una grande amicizia e un profondo rapporto di rispetto e di amore per lui: una grande persona!».

  • Qual è stato il suo contributo all’album?

«Inizialmente mi avevano chiesto di tradurre in inglese i pezzi scritti da Mogol. Nel frattempo, vista la sintonia che si era creata in studio, Geoff Westley, che era il produttore ed era molto preoccupato per le basi e per i musicisti, mi chiese di dargli una mano per fare la produzione per le voci. Quindi mi occupai della produzione delle voci in italiano e in inglese»

  • Negli anni Novanta c’è stata la collaborazione con Zucchero.

«Con lui è stato un po’ diverso. La London Records era molto interessata a Zucchero come artista internazionale: avevano capito che aveva qualcosa in più per il mercato mondiale. Zucchero è unico, fra tutti gli artisti italiani era quello che aveva un feeling per il blues e poteva andare bene anche in inglese. Lui all’epoca stava con Roger Forrester, lo stesso management di Eric Clapton, e fu Forrester in persona a chiamarmi: “Guarda Frank, ho questo artista italiano e la casa discografica ci tiene molto”. Io gli risposi che non ero interessato, perché avevo speso un sacco di lavoro con altri artisti italiani ed è molto difficile fare questo passo dall’Italia all’estero. Lui mi propose di andare a sentire Zucchero nel concerto che avrebbe tenuto a Lugano: “Poi mi dici di sì o di no”, mi disse. Sono andato lì, l’ho visto dal vivo e rimasi stupito: era bravissimo. Mi convinsi subito che il progetto poteva andare bene. Quindi, abbiamo fissato un incontro. Il progetto era quello di fare un Greatest Hits, prendendo i più importanti brani da due dischi di Zucchero, Oro incenso e birra e Blues. Abbiamo fatto versioni in inglese di sette pezzi, fra cui Senza una donnaDiamanteWonderful worldMama, My Love e tanti altri. Ho lavorato con lui in modo intenso, facendo la produzione delle voci e dandogli una mano a cantare l’inglese, perché all’epoca Zucchero non parlava l’inglese. Era un progetto molto istintivo. È stato un grande impegno fargli capire come si dovevano cantare i pezzi in inglese. Lui compensava con il feeling che ha con la musica. Quando gli davo un testo, lui diceva: “Ah, questa parte non mi piace”. “Perché?”, gli chiedevo. “Non mi suona”, rispondeva. Mi ha fatto capire che le parole sono anche musica e questo è qualcosa che può trascendere le barriere delle lingue. Aveva assolutamente ragione. Il suo giudizio era basato sul suono della frase. Da ogni artista con cui lavori impari qualcosa. Il disco fu un grande successo internazionale, ha venduto una marea di copie in tutta Europa, anche in America. Sulla scia di quel disco ha fatto l’album di duetti Zu & Co con Macy Gray, Tom Jones, B.B. King e un sacco di grandi artisti. È stata una esperienza molto soddisfacente, sebbene all’inizio sia stato un progetto molto difficile. Abbiamo poi scritto anche una canzone insieme in inglese per il concerto che tenne al Cremlino. Si chiama Anytime, parla di libertà. Non è stata mai tradotta in italiano, esiste solo la versione inglese. E sono molto fiero di questo, anche perché era un evento storico».

  • Per un lungo periodo lei con Dominic Bugatti ha formato una coppia di autori che è stata paragonata a John Lennon e Paul McCartney.

«Con Dominic ci siamo conosciuti all’università di Cambridge. Lui stava studiando legge e io letteratura medievale, pensa te. Però avevamo entrambi una grande passione per la musica, per il rock, il jazz. Ma, soprattutto, in quel periodo, per Eagles, Doobie Brothers, Steely Dan».

  • Gusti molto americani…

«Eravamo affascinati dalla musica americana in quel periodo. Dopo i Beatles e la British Invasion, c’è stato un periodo d’oro per gli States, quando sono saltati fuori Crosby, Stills e Nash, Buffalo Springfield, Neil Young. Era quella la musica che ascoltavamo. In Inghilterra era molto più glam rock, c’era David Bowie, che a me piace tantissimo, ma all’epoca non era quello che mi interessava. E, finalmente, dopo dieci anni di successi in Inghilterra, ma anche in America, ho deciso di trasferirmi oltre oceano, a Los Angeles, che era l’epicentro della musica. Ho lavorato con Quincy Jones, con i Toto. I più grandi musicisti del mondo erano lì, per me era come tornare all’università».

  • Come fu accolto un englishman a Los Angeles?

«Era agli inizi degli anni Ottanta ed è stato un po’ difficile. In Inghilterra era tutto molto comodo, eravamo conosciutissimi. Fortunatamente qualche successo che avevamo avuto in Inghilterra era arrivato anche in America, come il disco di Sheena Easton o Every woman in the world degli Air Supply. Questo ci ha aperto la porta. Se in America ci vai con un successo, si aprono tutte le porte. Se arrivi da sconosciuto, non ti conosce nessuno. Era il momento di fare il salto nella grande piscina, come dicono in Inghilterra. È stata una mossa azzeccata per me. A Los Angeles era un periodo molto creativo e finalmente ho avuto l’occasione di lavorare con i musicisti ed i produttori che erano i miei idoli: Jeff Porcaro, il più grande batterista del mondo, John Robinson, Steve Lukather dei Toto. Sono diventati anche degli amici, perché abbiamo lavorato molto insieme. Avevo una casa-studio a Laurel Canyon, che è un posto mitico, e i più grandi musicisti del mondo venivano da me per registrare. Era un sogno per me ed ho imparato una marea di cose».

Frank John Musker è un cantautore e compositore britannico, nato l’1 giugno 1951
  • Ma la grande popolarità è arrivata con i Queen in Gran Bretagna?

«Sì, ma la canzone è nata a Los Angeles, perché nel 1987 io ero a casa e mi chiamò il mio manager che era amico di Brian May, del quale era stato manager. Mi disse: “C’è Brian in città, è molto giù, è solo soletto, perché non lo inviti a casa così fate due chiacchiere fra inglesi”. “Okay, fallo venire da me”. Quando è arrivato, era distrutto, perché era in mezzo a una crisi matrimoniale. Era innamorato di Anita Dobson, che era una attrice molto conosciuta in Inghilterra, ed era sul punto di lasciare la sua famiglia dopo tanti anni. Abbiamo parlato per tre giorni, io gli preparavo il tè, lui piangeva. Anch’io ero in crisi in quel periodo, perché mi stavo separando dalla mia compagna Elizabeth. A un certo punto, gli ho detto: “No, Brian dobbiamo fare qualcosa di positivo, prendendo spunto da queste esperienze”. Gli ho dato la mia chitarra e abbiamo cominciato a scrivere Too Much Love Will Kill You. Il titolo del pezzo inquadrava perfettamente lo stato in cui eravamo, entrambi distrutti dall’amore. Lui era innamorato dell’attrice, ma amava anche sua moglie ed i suoi figli. Era un momento di grande indecisione e di grande dolore per lui. E la canzone è venuta fuori così». 

  • La canzone ha avuto diverse interpretazioni. Qualche critico inglese l’ha collegata a Freddie Mercury e alla sua malattia.

«Io neanche pensavo che l’avrebbe potuta cantare Freddie Mercury, che, per coincidenza, proprio in quel periodo venne a sapere che era molto malato per l’Aids, ma nessuno era a conoscenza. Quando abbiamo finito la canzone, Brian è tornato in Inghilterra e il giorno dopo mi ha chiamato: “Ho fatto sentire il pezzo ai ragazzi e Freddie vuole registrarlo”. Io ero incredulo, perché i Queen non scrivevamo mai con qualcuno fuori dalla band, l’unica eccezione era stata per David Bowie, con il quale hanno inciso Under pressure. Si fece mandare la versione originale del pezzo, quella registrata a casa mia. Ed è quella che senti nel disco dei Queen cantata da Freddie. Freddie l’ha cantato, ma per una serie di motivi non l’hanno messa sul disco The Miracle. Anche per le voci che già circolavano sui giornali sulla malattia di Freddie e un brano che si chiama Too Much Love Will Kill You poteva essere interpretato in tal senso. L’Aids, a quel tempo, significava la morte sicura, non c’erano le cure che ci sono oggi. La canzone, quindi, ha avuto una storia molto lunga. Negli anni Novanta, Brian l’ha ricantata nel suo album da solista ed è stato un successo. Quando è uscito l’ultimo disco dei Queen Made in Heaven l’hanno finalmente inserita, perché già era diventata una canzone storica. Fu anche premiata all’Ivor Novello Award nel 1997 come miglior brano, per musica e testo». 

  • La prima esecuzione in pubblico avvenne nel 1992 al Freddie Mercury Tribute Concert di Wembley.

«C’erano tutti, Elton John, David Bowie, George Michael, Guns n’ Roses. Io stavo nel pubblico e non conoscevo la scaletta. A un certo punto, Brian si è seduto al pianoforte annunciando che avrebbe cantato un pezzo nuovo: “Lo sto dedicando al mio amico Freddie ed è il regalo migliore che ho”. L’ha cominciato a suonare da solo al piano. Fare un brano nuovo in uno stadio davanti a 75mila persone è un po’ un rischio. Ero terrorizzato. Quando è arrivato all’inciso, tutto il pubblico era in silenzio assoluto. Alla fine, c’è stato un boato pazzesco. Dal terrore all’euforia. È stata la prima volta in cui quel pezzo è stato suonato».

  • Paroliere o compositore?

«Abbiamo scritto tutto insieme, testo e musica, io, Brian ed Elizabeth A. Lamers. Mi è capitato di scrivere solo il testo, però mi piace scrivere le canzoni per intero insieme a un altro autore. È come fare una performance dal vivo, è un momento magico. È questa la bellezza di scrivere insieme, come facevano Lennon e McCartney: tutti e due insieme alle chitarre o magari uno alla chitarra e l’altro al pianoforte. Da lì nasce la magia. Dopo quarant’anni di carriera sono convinto che il modo migliore di scrivere è stare con una persona e lavorare insieme. Ci sono casi, come per Michael Kamen, in cui invece ho scritto solo il testo. All’inizio era Band of Brothers (“Fratelli al fronte”), una colonna sonora per una serie tv, una bellissima melodia. Mi hanno suggerito di scrivere il testo ed io l’ho fatto anche senza il permesso di Kamen, perché lo sentivo molto. Alcune settimane prima ero stato nel nord della Francia per vedere la tomba del nonno di mia moglie che era morto nella Prima guerra mondiale. Vedere quelle croci bianche di ragazzi morti all’età di 18 anni mi ha ispirato il pezzo. Parlava del sacrificio supremo di questi ragazzi, “giovani uomini che sono morti per le guerre dei vecchi”, ed era molto commovente per me. L’ho proposto a Kamen, pur non avendo molte speranze, perché il brano era già di successo. Invece, lui è rimasto stupito, perché quella musica l’aveva composta per il fratello gemello di suo padre morto nelle ultime settimane della Seconda guerra mondiale, ma non era mai riuscito a scrivere un testo adatto. C’è stata questa coincidenza casuale che tramite la musica è venuta fuori. Abbiamo fatto cantare la canzone in anteprima al Covent Garden. Il pezzo è poi diventato un classico, registrato da tante persone. È strano come nascono le canzoni, accade in modi diversi. È come quando vai a pesca: una volta è un successo, un’altra fallisci clamorosamente».

  • Dopo 40 anni, come è cambiata la musica? C’è ancora spazio per gli autori, o oggi sono più importanti i produttori?

«Prima c’era la musica e poi c’è stato il business. Adesso c’è solo business. Oggi è molto arduo per i creativi, soprattutto per i nuovi, che non hanno avuto successo, perché è talmente difficile farsi vedere, sentire. Spotify ha il monopolio della musica, è diventata una dittatura della musica. Io sono stato molto fortunato per aver vissuto in un periodo in cui potevo essere sia commerciale ma anche creativo, seguire le mie emozioni, i miei gusti musicali. Quando vado in palestra io sento delle belle canzoni, ma sono remix, con lo stesso ritmo di batteria: è davvero deprimente. Stanno cercando di applicare una presunta formula di successo che non esiste. È una bugia, molti classici come A whiter shade of pale dei Procol Harum, Penny Lane dei Beatles, Hole in My Shoe dei Traffic venivano trasmessi dalle radio perché originali, diversi. Adesso avviene il contrario: si cercano pezzi che si assomigliano, perché la musica è diventata un sottofondo della vita quotidiana. La musica è invece qualcosa di incredibilmente speciale che può avere un impatto importante sulla società, guarda l’influenza che hanno avuto i Beatles, i Rolling Stones: hanno cambiato il mondo con le loro canzoni. Sono pessimista, non credo che i terreni siano fecondi per far crescere la musica buona in questo momento. La musica è solo uno strumento per fare soldi e adesso con l’intelligenza artificiale chissà cosa viene fuori. L’AI può essere interessante, però non può esprimere mai l’originalità, l’anima, il cuore che ha un uomo. Può fare un facsmile, ma non ti dà una emozione. E se la musica non ti dà un’emozione, non è musica, è rumore. La musica è arte cooperativa, invece prevale l’elettronica che è spesso solitaria. La musica è la magia di quattro, cinque persone che suonano insieme in una stanza. Mi piacciono molto i suoni di alcuni dischi moderni, la rivoluzione digitale ha cambiato molto la musica, e ci sono ancora dei grandi artisti, Dua Lipa, Taylor Swift, Ed Sheeran, Mark Ronson. Ma sono tutti artisti che hanno le loro radici nella musica degli anni Settanta, Ottanta. Ancora non abbiamo individuato dove va la musica, non sappiamo come sarà in futuro la musica. Ci sono periodi nella storia in cui fiorisce della musica nuova, per un sacco di fattori, sociali, storici, economici. Beethoven, Mozart, Bach sono i suoni del Settecento e dell’Ottocento. Esiste una musica classica moderna, ma non è alla stessa altezza. Così come è difficile oggi fare una canzone come Take it easy degli Eagles. Il mio vecchio amico Dominc mi ha detto: “Essere autore in questi giorni è come cercare di camminare in una strada di sampietrini e trovare uno che ancora non è stato calpestato”».

Frank Musker racconterà la sua storia al pubblico italiano in una tre giorni che da venerdì 20 giugno lo vedrà protagonista come musicista e come autore. A Solferino (MN), in occasione della storica Fiaccolata della Croce Rossa Italiana, salirà sul palco con i World Goes Round, “super band” composta da autori, produttori e musicisti di fama internazionale, attivi dagli anni ’80 a oggi: Frank Musker, chitarra acustica e voce, Marty Walsh, chitarra elettrica e voce, Elizabeth Lamers, voce, affiancati dagli italiani Matteo Saggese, tastiere, Enzo Zirilli, batteria. Sarà anche l’occasione per ascoltare il nuovo singolo Be The Love You Are, che unisce atmosfere pop e un messaggio positivo e universale.

Lunedì 23 giugno, nel Tempio di Venere nel Parco Archeologico del Colosseo a Roma, a Frank Musker sarà poi consegnato il premio AILA “Progetto Donna” per il suo contributo come cantautore e poeta. Perché «attraverso i suoi testi ha celebrato l’essenza, forza e profondità dello spirito femminile, dando voce al ruolo della donna in modo toccante e profondo».

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