– Il nuovo lavoro “Amaranto” segna una svolta nella carriera del musicista siracusano: abbandonate la chitarra e l’improvvisazione jazz, ritorna al piano classico
– Un album sorprendentemente intimo, fatto di brevi racconti sul tema dell’amore universale e dal quale emerge un artista con la sua sensibilità, le sue emozioni, i suoi ricordi, la sua vita
– «Ho lavorato di sottrazione, riscoprendo la semplicità. Anche se ciascun brano è iper-arrangiato, lavorato in modo maniacale sull’esposizione e sulla pesatura delle dita che è tipico dei pianisti classici»
Nell’agosto del 2021, al termine di una chiacchierata sull’album “italiano”, Giulia, Francesco Cataldo, il musicista che ha portato l’America a Ortigia, aveva lanciato una sfida. Quella di sedersi da solo davanti a una tastiera di pianoforte per raccontare “short stories”. «Una esposizione di temi, senza improvvisazioni. Perché l’era dell’improvvisazione è finita».
Tre anni dopo, il musicista siracusano ha mantenuto fede al suo proposito. Proseguendo l’opera di semplificazione cominciata già con Spaces nel 2013, proseguita con l’album dedicato alla figlia Giulia, raggiunge il suo obiettivo con Amaranto, il nuovo progetto appena pubblicato. Come se avesse fatto tabula rasa di quanto accumulato in trent’anni di musica, fra scuola, ascolti e carriera. Via il jazz («mantengo certe armonie, bandita l’improvvisazione»), messa da parte la chitarra con la quale aveva composto Giulia e ogni altro tipo di strumento, è tornato agli inizi, al pianoforte classico che suonava da piccolo. Ed è nato Amaranto, album minimalista: tredici “short stories”, tredici quadretti dalle tinte pastello che il settimanale americano Jazz Weekly ha definito «d’avorio».
«La sfida adesso è quella di raccontare, senza divagare, senza assoli. Non per un atteggiamento snobistico nei confronti del jazz, da dove provengo», precisa Cataldo. «È un ritorno alle origini, a quando studiavo pianoforte a 7 anni e quando, alla scuola media, a 11/12 anni, ho scoperto i Beatles e la canzone d’autore, che sono tornato a riascoltare. Ho lavorato di sottrazione, riscoprendo la semplicità. Anche se ciascun brano è iper-arrangiato, lavorato in modo maniacale sull’esposizione e sulla pesatura delle dita che è tipico dei pianisti classici. Quando improvvisi, nella foga, non badi a questo aspetto. Nella lentezza, invece, è importante. E quando racconti una storia, leggi una poesia, devi farlo lentamente».
Nonostante il calore del pianoforte e il romanticismo agrodolce che permea gran parte del lavoro, il sound design consente di comprendere non solo le note mentre le suona, ma anche il loro riverbero o dissolvenza. O il persistere di una nota finché non la interrompe sollevando il suo dito elegante e sottile dal tasto. È tutto sorprendentemente intimo: Francesco Cataldo muove le dita in modo felpato sugli 88 tasti bianchi e neri del pianoforte, inanellando una dietro l’altro le tracce su minuscoli spunti tematici e ritmici, senza l’impeto regolare e sperimentale del classico minimalismo, piuttosto come guardandosi dentro, al tempo del respiro. I pezzi si muovono dolcemente attraverso lo spazio e il tempo. Brani lievi, apparentemente fatti di niente, delicati e romantici, un poco tristi e malinconici. Un po’ Debussy, un po’ Sakamoto, un po’ Einaudi, un po’ stile ECM. Francesco Cataldo soprattutto: con la sua sensibilità, le sue emozioni, i suoi ricordi, la sua vita.
Come ogni storia, anche quelle del musicista aretuseo hanno dei protagonisti. A cominciare dalla title-track Amaranto, riferita al colore delle uniformi della Caritas, dove ha conosciuto Giuseppe Agosta, direttore della San Martino, nella quale nel 2000 Cataldo fece l’obiettore. «Siamo diventati grandi amici, è stato per me quasi un secondo padre», racconta. «È venuto a mancare per un tumore due anni fa. Io avevo già alcuni brani scritti. Dopo la sua scomparsa, superato il trauma, ho deciso di dedicare l’album a lui».
E poi c’è il nonno di Vito raccontami, un brano già incluso nell’album Spaces, registrato a New York col violoncello e la band americana. «L’ho ripreso e riarrangiato per pianoforte, stravolgendolo un po’ ed è diventato la colonna sonora di un cortometraggio che narra la genesi del brano girato nella chiesa anglicana di San Paolo a Roma».
«Giuseppe Agosta e nonno Vito sono simboli del tema dell’album: l’amore, amore universale e incondizionato, non soltanto quello romantico», sottolinea Cataldo. Quell’amore per gli altri, per i poveri, gli invisibili, che ha appreso durante l’esperienza di volontario. «L’amore non solo per una donna, ma per un amico, per la natura, per la vita, per l’universo, per te stesso! Soltanto amando te stesso in profondità puoi donare amore agli altri», spiega il pianista.
Oltre a Vito raccontami, viene ripreso dai precedenti lavori Two Colours, inserito in Giulia. «È un brano al quale sono molto affezionato e poi mi piaceva il titolo: due colori, due persone. In questo caso racconto l’amore di coppia», spiega. «Quindi, è come declinare l’amore nelle sue diverse sfaccettature».
In un mondo che parla di guerre, genocidio, terrorismo, Francesco Cataldo ha capito che le canzoni, come la voce, come il pianoforte, sono soltanto uno strumento per trasmettere emozioni. All you need is love, cantavano i Beatles. Un amore anche spirituale. Espressione di una fede. Perché il musicista siciliano si rivolge agli spiriti, almeno a quelli che vogliono ascoltare: gli altri si sono abituati a canzoni che dicono nulla.
Il quadro di Stefano Lazzari, il pittore del papa, sulla copertina del disco e il filmato girato all’interno della chiesa anglicana di San Paolo a Roma, edificio in stile neogotico che spesso ospita spettacoli di musica, introducono in questa atmosfera sospesa, meditativa, di pace. «Quando sono entrato ed ho intravisto la coda di un piano sono rimasto folgorato», ricorda Cataldo. «Ho cominciato a suonare ed è stata una delle esperienze più belle e spirituali della mia vita».
E all’interno di una chiesa potrebbe essere registrato il prossimo album di Francesco Cataldo: «Pianoforte e archi in una chiesa», sorride. Nel frattempo, si appresta a trasformare Amaranto in un progetto multimediale che comprende l’esecuzione dell’intero album, la proiezione del video e di alcune slide, la lettura di testi e l’esposizione del quadro di Lazzari.