– Il filmaker e dj anglo-giamaicano è considerato il “quinto Clash”. Ospite al Medimex25, racconta la storia della band che segnò gli anni Settanta, lasciando una traccia indelebile nella storia della musica
– «Con un orecchio ascoltavamo Beatles, Kinks e Who, con l’altro il reggae». L’incontro nel suo negozietto di dischi. «Convinsi Bob Marley della mia scelta per quella musica metà bianca e metà nera»
– «La musica ha il potere di cambiare il mondo e riflette il cambiamento. Ma ha bisogno dell’azione delle persone, altrimenti è soltanto una colonna sonora per un consumismo passivo, come è oggi»
I Clash sono il gruppo che più di ogni altro sintetizzò magistralmente quell’insieme di suoni, atteggiamenti, rabbia e sogni che pervase l’Inghilterra (e non solo) alla fine degli anni Settanta. Insieme ai Sex Pistols, i Clash guidarono la rivolta del punk, ma a differenza del gruppo di Johnny Lydon (meglio conosciuto in quei giorni con il nome di Johnny Rotten), la band composta da Joe Strummer (voce e chitarra, scomparso nel 2002), Mick Jones (chitarra), Paul Simonon (basso) e Nick “Topper” Headon (batteria) non aveva affatto una visione nichilista e autodistruttiva della musica e della vita e non pensava certo di mettere in scena la grande truffa del rock’n’roll. Tutt’altro.
I Clash hanno mostrato la strada a diverse generazioni, hanno puntato il dito contro il razzismo e le diseguaglianze sociali, hanno fatto conoscere al proprio pubblico il ritmo in levare del reggae e lo stile di quella che poi sarebbe diventata la vecchia scuola del rap. In soli cinque anni, dal 1977 al 1982, hanno registrato una serie di dischi destinati a diventare altrettanti capitoli fondamentali nella storia del rock. Più di ogni altra cosa, ai Clash artisti corrispondevano i Clash come persone: sincere, oneste, autentiche. Avevano talento, consapevolezza, energia. Non a caso, proprio in quel fatidico 1977, lo scrittore e giornalista statunitense Lester Bangs scrisse che «i Clash sono l’unica band che conta veramente». Per molti aspetti lo sono ancora.

Don Letts è considerato il quinto componente dei Clash. Per la band fu un collaboratore prezioso, un compagno di viaggio, un amico fraterno. Oggi Don Letts, nato in Inghilterra da migranti giamaicani, ha 69 anni, portati splendidamente. Ha diretto diversi documentari, tra i quali The Clash Westway to the World (2000), uno dedicato alla vita e all’arte del poeta in musica Gil Scott-Heron, conduce un programma radiofonico per BBC 6, il canale digitale della BBC, tiene delle serate, dei veri e proprio “punky reggae party” (proprio come il titolo della canzone che Bob Marley incise nel 1977) in tutto il mondo, uno dei quali venerdì notte allo Spazioporto di Taranto in occasione del Medimex25, dov’è stato il mattatore di un incontro con Carlo Massarini sulla storia del Clash.
È ancora un “rebel dread”, il soprannome che i Clash coniarono all’epoca per lui. Nasconde i suoi lunghissimi dreadlocks nel cappello rasta all’uncinetto, lo sloucy. Davanti al teatro Fusco di Taranto, dove è in programma il suo incontro, gusta un italian icecream, quando un fan gli si piazza davanti per chiedergli un autografo sulla copertina dell’“extended play” intitolato Black Market Clash. Non è un caso proprio quel disco. La copertina ritrae un giovane che fronteggia un cordone di poliziotti. Quel giovane è Don Letts e la foto fu scattata durante gli scontri del Carnevale di Notting Hill Gate del 1976. Cosa ricorda di quel giorno?
«Questa è la versione ufficiale di quella giornata, ma le cose non andarono in quel modo. È vero, partecipai agli scontri, c’erano anche Joe Strummer e Paul Simonon, e mi ritrovai in una posizione estremamente pericolosa: ero in mezzo a una strada, alle mie spalle c’erano tanti giovani neri con bastoni e sassi e di fronte a me c’erano i poliziotti. Ero davvero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Volevo scappare e mettermi al sicuro. La prospettiva di quello scatto ha tratto in errore tante persone. Le cose non andarono in maniera così avventurosa, in un certo senso così romantica, ma la gente ha bisogno anche di questo. Comunque, ripeto, stavo solo cercando un modo per trovare una via di fuga».

- Era l’estate del 1976: il punk con il suo glorioso anno di fuoco, il 1977, erano dietro l’angolo e la storia di Clash stava per cominciare. Come e quando conobbe i componenti del gruppo?
«In quel periodo gestivo l’Acme Attractions, un negozio di abbigliamento vintage che si trovava a Chelsea, molto vicino a Sex, il negozio gestito da Malcom McLaren, che poi diventerà il manager dei Sex Pistols, e dalla stilista Vivienne Westwood. Oltre ai vestiti vendevo delle cassette con i tanti 45 giri di reggae che mi arrivavano dalla Giamaica. Joe Strummer e soprattutto Paul Simonon. Loro con un orecchio ascoltavano Beatles, Kinks, Who e con l’altro il reggae. Così mi venivano a trovare al negozio per ascoltare tutta quella musica. La nostra amicizia e la nostra collaborazione cominciarono così».
- I Clash hanno avuto anche il merito di far scoprire il reggae prima ai giovani punk e poi al grande pubblico del rock. Un po’ come avevano fatto negli anni Sessanta i Beatles, i Rolling Stones con il rock’n’roll, il blues e il soul. È un paragone adeguato?
«In parte sì, ma ci fu una differenza sostanziale. Gli Stones quando interpretavano i classici del blues di Muddy Waters o di Howlin’ Wolf prendevano ispirazione da una realtà lontana, da una tradizione che apparteneva alla comunità afroamericana. Invece, il reggae per i Clash era qualcosa che conoscevano e vivevano quotidianamente. La società inglese di quel periodo era profondamente razzista. Noi figli dei migranti giamaicani pur essendo nati in Inghilterra eravamo ai margini, non avevamo prospettive, nessuna speranza per il futuro. In quel periodo a Londra all’entrata di molti pub c’era un cartello con scritto: “Vietato l’ingresso agli irlandesi, ai neri e ai cani”. Il sistema scolastico era estremamente punitivo e duro nei nostri confronti. La musica giamaicana, dallo ska al reggae, diventò il mezzo per unire i giovani neri e bianchi, eravamo dalla stessa parte, uniti dalla rabbia e dalla musica. Lottavamo insieme contro il razzismo seguendo il ritmo del reggae, ascoltando gli artisti giamaicani, primo fra tutti Bob Marley, che in quel 1977 viveva proprio a Londra, dove realizzò Exodus, il suo capolavoro. Un giorno andai a trovarlo vestito da punk, giubbotto di pelle nera, maglietta strappata e tutto il resto. Marley mi guardò in maniera strana e poi mi disse: “Letts, ma come vai in giro? Noi rasta non abbiamo nulla a che fare con questi punk rocker. È tutta immondizia!”. Gli risposi che stava sbagliando, che il loro amore per il reggae era sincero e soprattutto che anche loro, proprio come noi, erano dei ribelli e che potevamo, dovevamo lottare insieme. Con il tempo Marley capì e cambiò idea».

- Sempre in quel periodo, lei diventò il Dj del Roxy, il locale dove si tennero i primi concerti dei gruppi punk. Un altro momento decisivo…
«Sì, certo. Dovevo mettere i dischi all’inizio e alla fine della serata e tra le esibizioni delle band. Il problema era che in quei giorni di dischi punk ce n’erano davvero pochi e così decisi di mettere i tanti dischi reggae che avevo. La cosa funzionò, mi ricordo che tra il pubblico c’erano parecchi che urlavano: “Ehi Letts, suona ancora quel fottuto reggae, dai!”. Fu sempre in quel periodo che i Clash mi chiesero prima di riprenderli mentre suonavano e poi di dirigere i loro video. Non finirò mai di ringraziarli per avermi dato quella possibilità. Più in generale, credo di aver contribuito a quel movimento creativo ma anche politico, perché con la musica lottavamo contro i conservatori, contro il razzismo del National Front, ho fatto la mia parte e ne sono orgoglioso».
- A pensarci bene la storia dei Clash è durata poco, più o meno cinque anni, ma il seguito che avevano e che hanno ancora oggi è impressionante. Lei come se lo spiega?
«Sì, solo cinque anni, più o meno, ma sono sembrati molti, molti di più. In quel periodo hanno inciso anche un album doppio, London Calling, e un triplo, Sandinista, e quando non erano in studio erano costantemente in tour. Alla fine, erano stremati. Avevano dato tutto. A livello creativo è stato uno sforzo tremendo. Credo che nella storia del rock dopo Lennon e McCartney, Mick Jagger e Keith Richards ci siano, come autori e compositori, Joe Strummer e Mick Jones. Lo scioglimento del gruppo è stato qualcosa di molto doloroso per tutti. Io sono rimasto sempre al loro fianco, eravamo fratelli. Ho anche fatto parte dei Big Audio Dynamite, il gruppo che Mick Jones formò dopo la fine dei Clash e anche questa è stata un’esperienza bellissima. Credo comunque che sia stato importante anche scegliere di finire in quel modo, senza prendere in giro nessuno. Meglio seguire l’esempio dei Beatles che rischiare di diventare come i Rolling Stones».

- Rimpiange quel periodo?
«Il punk è stato un movimento completo. Ha prodotto una musica, un’arte, una moda, filmakers come il sottoscritto. E tutto sulla base della filosofia del “do it yourself”, fai da solo. Anche oggi ci sarebbe bisogno del punk rock. Avremmo bisogno, soprattutto, di politici con lo spirito del punk rock».
- Lei ritiene che la musica possa contribuire a salvare il mondo?
«Ha il potere di cambiare il mondo e riflette il cambiamento. Ma ha bisogno dell’azione delle persone, altrimenti è soltanto una colonna sonora per un consumismo passivo, come è oggi. Purtroppo, sono cambiate l’aspirazione di chi fa musica e l’aspettativa di chi l’ascolta. Ai miei tempi, la musica cambiava le menti, oggi le Sneakers. Oggi la musica fugge dalla realtà piuttosto che affrontarla. Molti musicisti hanno paura di avere una opinione: se vuoi andare sul red carpet, ai Grammy, non puoi fare musica d’impegno, ma puntare al divertimento».