– La band che nel 1995 prese parte con il nome T.A.F. al progetto “Lapilli” torna nell’anniversario di quel formidabile anno (ci fu anche il concerto dei R. E. M. allo stadio Massimino) con un nuovo nome, una formazione rinnovata e un album di grande spessore, “Don’t Care”
– Trent’anni dopo tutto è cambiato. «La perdita d’interesse dei giovani per la musica, la scena collassata, oggi non ci sono più neanche i locali per suonare. Eppure, le band ci sono, vedo tanti ragazzi che hanno voglia di suonare», dice Emilio Cosentino frontman del gruppo
Turn, Jerica’s Leaves, Piglike, Campane Sorde, Nerves’ Korùt, T: A. F., Erezione Libera, Plank, White Tornado, $nort!, Keen Toy, Full Moon Underground, Uncle Fester. Sono i nomi delle band che nel 1995 parteciparono al progetto Lapilli con il sostegno dei Fugazi, che donarono il cachet della loro esibizione al Porto di Catania, l’incasso di una serata alla Villa Bellini e la complicità del fonico della band americana Don Zientara. Di quella scena anni Novanta di una Catania che sognava ancora di essere la Seattle d’Italia è rimasto poco e niente. Alcuni hanno riposto le velleità nel cassetto, qualcuno ha tentato la fortuna lontano dall’Etna, altri hanno sostituito la giacca di cuoio con un completo grigio e la cravatta.
Emilio Cosentino, Giancarlo Salafia e Antonio Spampinato sono dei testimoni di quell’epoca e di quel progetto. Al tempo si nascondevano dietro l’acronimo T. A. F, ovvero That’s All Folks, frase finale tipica dei cartoni animati Looney Tunes. Un nome quasi profetico: lo spettacolo è terminato, non c’è altro da vedere. E, in effetti, da allora è cominciato il lento declino della scena musicale (e anche politica) di Catania.
«Per impegni personali, famiglie e perché, purtroppo, la musica non è un lavoro, ma una passione», Emilio Cosentino, Giancarlo Salafia e Antonio Spampinato scesero dal palco per mettersi dietro a una scrivania o a un bancone. Trent’anni dopo, hanno deciso di riprendere in mano i loro strumenti e di rituffarsi nell’arena con il nome di Gigantik, «che si pronuncia all’americana, Giaigantik, citazione di un brano dei Pixies», sottolineano. Espressione anche di «un pizzico di megalomania», confessa sorridendo Emilio Cosentino, frontman della band.

«Ufficialmente è dal 2010 che abbiamo ripreso seriamente, con impegno, Noi tre, il nocciolo duro, ovvero io, il chitarrista Giancarlo Salafia e il batterista Antonio Spampinato. Abbiamo cambiato bassista e oggi allo strumento c’è una ragazza più giovane di noi Agata Trovato».
La “Catania raggiante” degli anni Novanta sembrava stesse davvero diventando una delle “Sound City” d’Italia. Si erano concluse due importanti esperienze, come Denovo e Boppin’ Kids, dando vita a tre carriere soliste (Luca Madonia, Mario Venuti e Orazio Grillo) e stava per esplodere il fenomeno Carmen Consoli. Il 6 agosto 1995 andò in scena il concerto dei R. E. M. con degli ancora sconosciuti Radiohead, proiettando la città etnea all’attenzione del mondo. Sembrava l’inizio di un Rinascimento, invece si rivelò una bolla. Che esplose dopo la prematura scomparsa di Francesco Virlinzi, il deus ex machina della etichetta catanese Cyclope Records e di quel movimento.
«Penso sia stato un fatto fisiologico», commenta Emilio Cosentino. «La perdita d’interesse dei giovani per la musica, la scena è collassata, oggi non ci sono più neanche i locali per suonare. È diventato difficile investire in un piccolo club per fare musica a causa di tutte le limitazioni che ci sono. A Catania c’era il Mono, ma ha dovuto interrompere per problemi di decibel, di vicinato. Una volta c’erano il Macumba, il Taxi Driver, il Waxy O’Connors , La Chiave… Ho sentito alcune dichiarazioni di Manuel Agnelli che oggi è una figura controversa, perché viene dall’underground e poi ha fatto Sanremo e XFactor. Però penso che con gli Afterhours abbia fatto la storia della musica rock in Italia. Finita l’esperienza di giudice a XFactor, adesso sta puntando sui giovani. A Milano ha aperto un locale che si chiama “Germi”, dove dà spazio alle nuove band, agli “under 30”. I gruppi che si sono esibiti nel locale adesso li porta nel tour per i vent’anni di Ballate per piccole iene, e tra l’altro suonerà una band catanese che ha abbastanza seguito, gli Helen Burns. Saranno a Zafferana insieme agli Afterhours. Perché le band ci sono, vedo tanti ragazzi che hanno voglia di suonare, di uscire dalle loro camerette».
- Oggi le piattaforme di streaming, Spotify, YouTube, aprono una finestra sul mondo che nessun locale può offrire.
«Nonostante la possibilità di divulgazione mondiale, di fatto se manca il supporto di una scena, di una etichetta, dei locali, del pubblico, forse la musica diventa fine a se stessa, produce un prodotto “usa e getta” sperando che…. Oggi c’è una offerta sterminata, infinita, di musica, ma troppa offerta equivale a nessuna offerta, anche perché manca la ricerca. Ai nostri tempi andavamo a cercare i dischi da Rock 86 o da Musicland, rischiavamo, compravamo un album al buio. C’era voglia di scoprire. Oggi che tutto è offerto gratis e hai tutto sottomano, questa voglia è venuta meno».
- Davanti a questa offerta sterminata, come hai detto tu stesso, quando ogni giorno su Spotify vengono scaricati 60mila brani, per emergere bisogna cercare qualcosa di diverso che si differenzi da una musica ormai tutta omologata.
«Credo che la musica sia sempre una rielaborazione di se stessa. Come ha detto Keith Richards in una intervista: “Abbiamo copiato qualcosina da quelli che c’erano prima, abbiamo aggiunto qualcosa e abbiamo fatto una cosa nuova”. Poi domani arriva qualcun altro che aggiunge un’altra cosa. Ma le rivoluzioni nella musica, come nell’evoluzione umana, non sono dall’oggi al domani. Poi magari ti scappa fuori una band come i Nirvana, ma già facevano parte di una scena, di un background pre-esistente, non sono venuti fuori dal nulla. Nulla si crea dal nulla. Oggi ci sono tante band valide».

Una di queste sono i Gigantik. Il disco con il quale sono tornati, Don’t Care, è godibile, ben suonato, arrangiato e prodotto. Si ascolta con piacere dall’inizio alla fine, senza cali di tensione. Un disco avvolgente di chitarroni rock, con echi U2 e Cure, psichedelia e garage. Pecca forse in originalità, ma è granitico, energico, di grande spessore, specchio di una band che si è formata i muscoli sul palcoscenico e che non ha mai tentato di prendere scorciatoie.
«Generalmente si tira fuori quello che hai dentro, il tuo background musicale, poi la sperimentazione è più una questione anagrafica», riflette Emilio Cosentino. «Noi abbiamo cinquant’anni, quando si può, suoniamo nei locali, abbiamo presentato il disco “live” al Centro Zo lo scorso maggio. Ci riteniamo una live band, abbiamo finito il disco in tre giorni: due per registrarlo, uno per missarlo, proprio per mantenere l’impatto “live”. Sicuramente non siamo la Next Thing, non saremo il gruppo che farà la svolta, né riempiremo i palazzetti. Però il nostro pubblico lo abbiamo, abbiamo fatto 400 paganti che, nel panorama musicale di oggi, non sono pochi. Nel nostro sound c’è tanto rock’n’roll, new wave, post punk, ciascuno di noi ha un’estrazione musicale diversa. Io, ad esempio, sono appassionato di punk, hard-core, tutta la scena italiana degli anni Ottanta e Novanta; l’altro chitarrista, Giancarlo, è appassionato di dark, dei Cure, new wave; il batterista è più per una musica raffinata, i Police, gli anni Ottanta. Agata è la più giovane del gruppo, è l’anima moderna della band. Da questo è venuto fuori un miscuglio,,, Adesso stiamo lavorando a nuovi pezzi che già hanno una evoluzione musicale diversa rispetto a quella del disco che risale a tre anni fa».

- “Don’t care” significa “non importa”, quali sono i temi dei testi?
«“Non importa” indica l’arte di fottersene, di fare quello che ti piace nonostante le mille pressioni. È un po’ una metafora. I testi che scrivo io sono un po’ introspettivi in cui si parla della difficoltà dei rapporti umani, di qualunque tipo: rapporti sentimentali, tra padre e figlio, rapporti con gli altri. Nell’era delle conversazioni “usa e getta” quello che mandi a un amico non è un messaggio, ma una notifica».
- Nel 2016 avete lavorato con Cesare Basile per l’EP “Can’t Wait”. Cosa è rimasto di quella collaborazione?
«Cesare è un amico da una vita! Abbiamo suonato insieme, nel suo studio Zen Arcade abbiamo registrato il nostro primo Ep. È stato un precursore della musica a Catania. Ora ha preso una direzione molto di nicchia, ma prima con i Candida Lilith, gruppo d’eccellenza dell’underground giovanile, e poi con i Quartered Shadows ed i primi album da solisti è stato un punto di riferimento per tanti. Catania, se ci fai caso, in ogni genere musicale ha portato avanti delle eccellenze. Nel nostro piccolo abbiamo espresso band in ogni ambito musicale che nulla avevano da invidiare ai nomi internazionali. Nell’ambito del rockabilly o dello psycobilly i Boppin’ Kids, che ancora oggi hanno un grande seguito, nel metal gli Schizo che hanno un seguito in Giappone. Le band c’erano e avevano qualità».